Garibaldi Idraulico (I parte)

Stampa

GARIBALDI IDRAULICO (prima parte)

Prima della fondazione della città, l’area che costituirà il cuore monumentale dell’Impero Romano era un terreno paludoso e soggetto a frequenti inondazioni: i 7 antichi villaggi, che unendosi daranno origine a Roma, occupavano le sommità delle scarpate terminali dell’altipiano tufaceo in destra del Tevere o i modestissimi rilievi lasciati dalla erosione del fiume, come il colle Palatino e l’annesso Campidoglio.
Molte furono le inondazione del centro della città che comprendeva gli edifici monumentali e alcuni dei quartieri più popolosi: notizie delle inondazioni di epoca repubblicana e imperiale, riportate nei testi dei classici latini come Tacito e Ammiano Marcellino o scolpite su antiche lapidi, sono molto frammentarie e sono ricordate soprattutto quando si intrecciano con eventi di interesse storico e sociale come ad esempio l’ostacolo alla marcia di una colonna dell’esercito imperiale o la sospensione dei Ludi Apollinari al Circo Massimo, dovuta a una piena fuori stagione.
La città continuò ad espandersi nei secoli senza che fossero presi provvedimenti per limitare i danni delle inondazioni: se ne ricordano parecchie avvenute nel medioevo: con la piena del febbraio 1230 cadde il ponte Senatorio, detto in seguito ponte di S. Maria, che venne ricostruito e distrutto dall’acqua più volte fino a che fu accertata l’inutilità del suo ripristino. Il suo rudere, che ancora rimane nell’alveo a valle dell’isola tiberina, è noto con il nome di ponte Rotto. Il XVI secolo vide molte inondazioni, in particolare si ricordano quelle disastrose che si verificarono nel 1530, che provocò alla città danni maggiori di quelli causati dai lanzichenecchi di Carlo V durante il Sacco di Roma del 1527, e quella della vigilia di Natale del 1598 che arrivò a inondare piazza di Spagna la cui fontana, detta della Barcaccia, ha una forma che si dice essere stata ispirata allo scultore Bernini dal ricordo della inondazione. A credere alle testimonianze del tempo, la calamità causò qualche migliaio di vittime.
Chi visita Roma trova ancora, in punti inattesi del centro storico, lapidi che indicano il livello raggiunto dall’acqua durante le passate inondazioni; cito ad esempio le lapidi poste sulla facciata e sul fianco della chiesa di S. Maria sopra Minerva, della chiesa di S. Eustachio e della chiesa di S. Salvatore in Onda.
Una curiosa testimonianza della Roma inondata si ritrova in uno degli affreschi dipinti dal Peruzzi tra il 1518 e il 1519 su una delle pareti della sala delle prospettive alla Villa Farnesina di via della Lungara.
L’ultima grave inondazione del centro di Roma avvenne nella notte del 25 dicembre 1870 quando l’acqua penetrata in Roma dalla porta di Piazza del Popolo si riversò lungo il Corso. A ricordo del fatto rimangono varie lapidi: una è facilmente reperibile sulla facciata di un edificio a metà di via Condotti, ora diventata la via della moda e del lusso.
Questa ultima inondazione di Roma avvenne 3 mesi dopo la presa della città da parte dei bersaglieri italiani che entrarono in Roma attraverso una breccia aperta a cannonate nelle mura Aureliane, a poche decine di metri di distanza da Porta Pia.
La calamità idraulica, che per fortuna non provocò vittime, convinse lo stato italiano che la futura capitale del regno non poteva restare soggetta alle frequenti inondazioni del Tevere e, così, il 10 gennaio 1871 iniziarono i lavori della “Commissione per studiare e proporre i mezzi di rendere le piene del Tevere innocue alla città di Roma” insediata con decreto del Ministro dei Lavori Pubblici. La Commissione, che era composta dai più noti ingegneri idraulici dell’epoca, dopo un anno di lavoro e numerose riunioni produsse il progetto di sistemazione del Tevere che viene oggi conosciuto come Progetto Canevari, dal nome dell’ingegnere che ne curò la stesura. Il Progetto Canevari prevedeva di sistemare il Tevere in maniera analoga a quanto il Governo francese aveva fatto per proteggere Parigi dalle esondazioni della Senna, ossia: regolarizzando l’alveo, rimuovendo i ruderi lasciati sul fondo, elevando i muri di sostegno delle sponde fino a una quota sufficiente a contenere le acque di piena – i “muraglioni” del Tevere – e realizzando collettori fognari posti a ridosso dei muraglioni – i “fognoni” – che raccogliessero tutte le acque di scarico della città convogliandole a valle di Roma. Solo alcune opere di grande interesse storico come la Cloaca Massima continuarono a scaricare nel Tevere.
Anche in quella occasione ci furono le accese discussioni, le polemiche sui giornali, gli scontri nella Pubblica Amministrazione – Ministero,  Provincia, Comune – sulla soluzione progettuale da scegliere e su chi dovesse accollarsi il costo dei lavori, le valutazioni economiche dell’onere delle opere chiaramente o artatamente infondate, le risibili spiegazioni dei fenomeni idraulici, ecc. non dissimili da quanto accadeva nei secoli precedenti e da quanto accadrà nei 150 anni successivi in tutte le occasioni nelle quali si vogliano realizzare grandi opere pubbliche.
In definitiva, dopo tanto discutere, dopo avere osservato che i soldi per realizzare le opere idrauliche non si trovavano, dopo avere costituito commissioni di studio, esaminato proposte di privati, attizzato le brame di speculatori immobiliari, scatenato le opposizioni dei proprietari dei palazzi e dei caseggiati che si affacciavano direttamente sul fiume, tutto finì nel dimenticatoio e così sarebbe andata fino alla successiva grave piena se non fosse intervenuto il generale Giuseppe Garibaldi.
Come ci ricordano anche i testi scolastici Garibaldi, che era fuggito in America per sottrarsi alla condanna a morte comminatagli dal governo piemontese per diserzione dalla regia marina a seguito della fallita insurrezione repubblicana del 1834, aveva raggiunto una fama internazionale con le sue imprese di comandante di marina, capo militare e guerrigliero nei vasti territori tra lo stato del Rio Grande del Sud, che si era ribellato all’imperatore del Brasile Don Pedro II, e l’Uruguay, dove aveva preso le parti del partito colorado così chiamato dal colore rosso delle divise, contro il partito blanco capeggiato dal generale Oribe che, spalleggiato dal dittatore Argentino generale Rosas, aveva deposto con un golpe il presidente legittimo, il colorado Rivera.
Lasciata Montevideo con Anita e i suoi fedeli amici della Legione Italiana, arrivò in Italia nel 1848 quando si stava preparando la I Guerra di Indipendenza, alla quale partecipò combattendo con i suoi volontari.
Dall’anno dopo la vita di Garibaldi si intreccerà in molti modi con la storia di Roma, che nel mito e nella retorica risorgimentale e nella azione e propaganda politica dei mazziniani, ai quali Garibaldi aveva da subito aderito, doveva essere la capitale dello stato unitario: simbolo della passata gloria e delle future speranze del popolo italiano. Per queste idee combatterono e morirono molti tra la migliore gioventù di quegli anni. Il primo episodio di grande notorietà per Garibaldi si ebbe con il suo intervento in difesa della Repubblica Romana contro le truppe napoletane e francesi. La sua azione alla guida dei volontari all’attacco del nemico a Porta Cavalleggeri fu descritta dai giornali europei e americani come un episodio leggendario di audacia e di estremo coraggio.
Dopo il successo della impresa dei Mille, Garibaldi rivolse ancora la sua attenzione a Roma quando nel 1867 tentò la presa della città con il suo esercito di volontari accorsi in appoggio ai giovani che avevano avviato un tentativo insurrezionale nella città: è famoso l’episodio di Villa Gloria nel quale perirono parecchi studenti universitari come i pavesi Enrico e Giovanni Cairoli.
L’impresa di Garibaldi si concluse, come molte altre, con un insuccesso a seguito della sconfitta nella battaglia campale di Mentana contro le truppe francesi e pontificie. Ma Garibaldi non dimenticò Roma, che a suo parere doveva risorgere splendida e maestosa come capitale del nuovo stato italiano, e così quando si rese conto che l’inerzia del Governo non avrebbe consentito di porre in sicurezza la città contro le piene del Tevere egli scrisse sul finire del 1874 al Ministro dei Lavori Pubblici, Silvio Spaventa, esponendogli il suo proposito di intervenire sulla questione della difesa idraulica di Roma.
In quello stesso anno Garibaldi fu eletto deputato al Parlamento Nazionale in numerosi collegi elettorali, come gli succedeva in tutte le elezioni che si erano svolte in Italia a partire dal 1861.
Nel 1874 il generale optò per il collegio di Roma 1 e, salpato da Caprera il 26 gennaio 1875 con il figlio Menotti, Basso e Sgarallino, giunse due giorni dopo a Roma per giurare in Parlamento nonostante l’artrite ne rendesse precario il movimento e lo costringesse talvolta a farsi portare a braccia o in carrozzella: fu questa una circostanza eccezionale in quanto egli, pur essendo sempre stato eletto deputato a tutte le legislature, non usava partecipare ai lavori parlamentari.

di Prof. LUIGI NATALE – Università di Pavia

Continua e finisce nel prossimo numero