Il saggio seguente è apparso in «il Saggiatore musicale», VII/1, 200, pp. 137-178.
Desidero ringraziare la Direttrice della Rivista, prof.ssa Giuseppina La Face, l’editore, Daniele Olschki, e gli Autori per aver consentito la pubblicazione online di questo contributo.
Michele Girardi (1 ottobre 2002)

Davide Daolmi - Emanuele Senici

Roma - Oxford

 

«L’omosessualità è un modo di cantare»

Il contributo queer all’indagine sull’opera in musica

 

 

 

 

La ricerca storica e umanistica si è recentemente aperta ad ambiti d’indagine fino a poco tempo fa impensabili; fra di essi, spicca un’attenzione non superficiale al ruolo che l’omoses­sualità ha svolto nella storia della cultura, e quindi della musica. Il fenomeno interessa soprattutto l’ambiente accademico nordamericano, mentre la partecipazione italiana allo studio sui rapporti fra omosessualità e musica è stata finora pressoché nulla. Con questo intervento proviamo a rompere il silenzio, rivolgendo la nostra attenzione ai contributi su omosessualità e opera in musica, che rappresentano una porzione significativa di quanto apparso finora, e nel contempo riguardano più da vicino i nostri interessi. Ci è sembrato che un’organizzazione tripartita – teorica storica sociologica – meglio rispondesse agli orientamenti che emergono da tali contributi. Nella prima parte tentiamo di ripercorrere in breve le premesse metodologiche e storiografiche delle teorie sull’omoses­sualità e delle loro applicazioni all’opera in musica; nella seconda proponiamo uno sguardo omosessuale alla storia dell’opera, in una disposizione cronologica che vuole in certo qual modo reagire, almeno implicitamente, all’appiattimento storico percepibile in una parte della bibliografia qui presentata; nella sezione conclusiva presentiamo gli studi sulla recezione dell’opera in musica da un punto di vista gay.

Conviene avvertire fin d’ora che non abbiamo cercato di smussare le contraddizioni che emergono dalla lettura dei contributi che qui presentiamo, convinti come siamo che opinioni diversificate rappresentino non già un’impasse di fondo bensì un motivo di ricchezza interpretativa. La nostra speranza è d’incoraggiare una lettura critica della bibliografia, senza voler proporre una tesi – almeno non in questa sede – e senza voler discutere la validità dei metodi proposti da questi studi (la discussione avrebbe senso solo in una ricognizione di più ampio respiro). D’altra parte ci pare se non altro opportuno dichiarare che il nostro punto di vista, oltre ad essere collettivo (e quindi necessariamente mediato), è nel contempo italiano, maschile e gay: speriamo in questo senso che la nostra italianità ci permetta di non accogliere supinamente l’ottica statunitense; insieme chiediamo perdono alle lettrici se magari si sentiranno un po’ trascurate; e vogliamo ricordare che, se è vero che la nostra identità può costituire una posizione di parte, questa parte è peraltro abituata per necessità a pensare con la testa dell’altra.[1] Il nostro auspicio è che la strada aperta oltre Atlantico possa essere battuta in Italia con la competenza storica, sociale, nazionale che tanto gioverebbe ad un’espressione così “geneticamente” italiana come l’opera. Tutti dovrebbero sentirsi incoraggiati a prendere in considerazione tale approccio, a prescindere dal proprio privato o dal giudizio che ciascuno ritiene di formulare in merito, con la stessa spontaneità e lo stesso interesse con cui ci si confronta col parere di un altro, con cui si leggono i contributi in lingua straniera, con cui si tenta di non far confusione fra la propria formazione culturale e l’ambito di studio intrapreso.

 

questioni di metodo

 

Nel recente The Queen’s Throat: Opera, Homosexuality, and the Mystery of Desire il poeta e critico letterario statunitense Wayne Koestenbaum, implicitamente liquidando in una battuta tutta la vexata quaestio dell’identità gay, dichiara appassionata­mente:

 

L’omosessualità è un modo di cantare. Non posso essere gay, posso solo cantarlo, disperderlo. Non posso bussare alla sua porta e chiedere di entrare, perché non è un luogo o uno spazio definito. È invece una miriade di intersezioni – o una linea di demarcazione, una membrana, come la gola, che separa il soffio interno del corpo dal caos del mondo esterno.[2]

 

L’idea dell’omosessualità come desiderio, comportamento, espressione – idea per molto tempo nient’affatto ovvia, e tuttora contrastata e complessa – si è consolidata negli ultimi decenni attraverso un dibattito che a sua volta ha confermato o quantomeno manifestato tale idea.[3] Tale dibattito è arrivato alle orecchie dei musicologi soprattutto attraverso il femminismo universitario nordamericano ed ha trovato nell’opera in musica uno degli spazi più fecondi in cui espandersi.[4]

Il libro di Koestenbaum ha costituito uno snodo importante per le riflessioni storico-critiche sull’opera che, in modi diversi, hanno adottato un punto di vista omosessuale. Le numerose recensioni, apparse su periodici gay ma anche su quotidiani e su riviste musicologiche, testimoniano il forte impatto che il volume ha avuto anche in ambiente scientifico.[5] The Queen’s Throat si colloca però ai margini, se non al di fuori, dell’accademia, a metà tra il saggio e la scrittura creativa, e implicitamente suggerisce che né il metodo né il linguaggio scientifico non sono ancora spontaneamente permeabili alle tematiche omosessuali.[6]

Proporre una presentazione critica di tali riflessioni ad un pubblico italiano significa rielaborare idee sviluppatesi in larghissima parte in un contesto culturale, sociale ed ideologico profondamente distante dal nostro, accademico e non. Tale distanza si manifesta già nella traduzione della terminologia di base, che obbliga a mantenere in inglese alcuni vocaboli chiave, primo fra tutti queer. In inglese l’aggettivo aveva il generico significato di ‘strano’, ‘insolito’, seppur con connotazioni negative; da alcuni decenni, ed in modo sempre più esclusivo, è però usato per indicare in modo spregiativo una persona omosessuale, quasi sempre di sesso maschile, con connotazioni simili ancorché meno aggressive all’italiano ‘frocio’.[7] A cominciare dagli anni ’80, queer è stato recuperato dalla cultura omosessuale statunitense in modo autoreferenziale e con significato molto ampio (ci si ritrovano gay, lesbiche, bisex, travestiti, transessuali). Quelli che nelle università vengono spesso definiti queer studies – sottoinsieme del più vasto dibattito gender[8] – si sono progressivamente ampliati da un’iniziale enfasi su fatti storici, testi letterari ed oggetti artistici che coinvolgono, descrivono e rappresentano persone omosessuali (o che si possono mettere in relazione con persone omosessuali) ad un apparato interpretativo e discorsivo che ha l’ambizione di rivisitare la storia e d’interpretare il presente da una prospettiva globalmente omosessuale.

In questo senso, Castle costituisce un buon modello d’interpretazione dell’opera in musica in chiave queer, perché si muove sapientemente tra il pubblico e il privato, la storia ed il presente senza che nessuno dei due punti di vista prenda il sopravvento e fagociti l’altro.[9] Il fascino che la studiosa prova per la voce del mezzosoprano tedesco Brigitte Fassbaender agisce da spinta iniziale per una ricostruzione storica del fenomeno da Terry Castle definito «“sapphic” diva-worship», ossia la venerazione che una parte del pubblico femminile ha manifestato per talune primedonne. Scopriamo così, per esempio, che la giovane regina Vittoria nutriva una vera passione per Giulia Grisi, che negli anni della maturità la favorita della regina divenne Jenny Lind, e che l’anziana monarca volle che Emma Calvé posasse da Santuzza per un busto poi collocato in un posto d’onore negli appartamenti privati di Windsor. Negli anni ’10 e ’20 del Novecento, dopo ogni sua recita al Metropolitan, Geraldine Farrar veniva accolta all’uscita degli artisti da un gruppo di fans femminili, le cosiddette “Gerry-flappers”, che inalberavano cartelli con scritte del tipo «we want you», «always with you» e «none but you». Castle esplora poi le ramificazioni letterarie del sapphic diva-worship in romanzi di autrici quali Willa Cather e Marcia Davenport, in cui traspare il desiderio omoerotico come componente significativa del fenomeno. Infine racconta della sua personale ossessione per la Fassbaender e si sforza d’interpretarla alla luce della ricostruzione storica che precede, scoprendo insieme continuità e differenze.

Un’indagine come quella di Castle trae origine dalle teorie su sessualità, identità e linguaggio elaborate dal secondo dopoguerra in qua. Non è questo il luogo per una ricognizione di tali teorie, ma vale la pena sottolineare che la queer theory fonda la propria impalcatura concettuale sulla recezione americana di pensatori quali Foucault, Derrida e Lacan. Punto di partenza è la collocazione foucaultiana della nascita del concetto di ‘identità sessuale’ verso la fine dell’800, col contemporaneo riconoscimento dell’omosessuale come ‘specie’;[10] non a caso il termine ‘omosessuale’ si comincia a usare dal 1869.[11] La decostruzione – Derrida e i suoi esegeti americani – e la psicanalisi d’ispirazione lacaniana, soprattutto femminista, hanno sollecitato un’attenzione particolare per il ruolo fondamentale che spetta al linguaggio nel creare tale identità. Ne discende, al di là dell’Atlantico, la formazione della teoria costruzionista, che concepisce la sessualità come adeguamento a modelli di comportamento e rappresentazione; donde la queer theory.[12] Le definizioni di ‘sessualità’, inclusa quella dell’eterosessualità, non sono quindi giudicate immutabili, universali, date una volta per tutte, ma variano invece nel tempo e nello spazio, sono legate a contesti sociali e politici, ed hanno radici ideologiche.[13] Le sessualità che non si conformano alla norma eterosessuale e che sono state marginalizzate ed oppresse offrono quindi un punto d’osservazione e di critica privilegiato per il riesame della sessualità tout court, e perciò dell’identità e del linguaggio, nella storia e nel presente.

Di conseguenza, la terminologia ha assunto un’importanza non trascurabile. Già la parola ‘omosessuale’ era stata rifiutata per le sue connotazioni patologiche, e sostituita negli anni ’70 da gay. Negli ambienti accademici, il termine gay – in americano si riferisce in genere agli omosessuali maschi – è stato a sua volta criticato come un marchio d’identità, e spesso sostituito da queer. Alcuni hanno tuttavia rilevato che in questo modo si rischia, nel rimbalzo delle etichette, di perdere di vista una specificità – che i gay avrebbero conquistato con fatica nell’azione politica degli ultimi anni – in cambio di una diversità indifferenziata che forse nasconde un desiderio di integrazione ed assimilazione.[14]

Non si può dire che esista consenso su che cosa sia la queer theory, neppure al suo interno. Rimane comune la consapevolezza della radice ideologica che, senza rinunciare alla parzialità del punto di vista, tenta di ritrovare in tale parzialità, proclamata e celebrata, la forza delle proprie tesi. La differenza tra la queer theory e, poniamo, la storiografia marxista o la linguistica strutturale o la psicanalisi freudiana, sta nella mancanza di qualsiasi pretesa di rivelare verità assolute e totalizzanti. In questi termini le accuse di ideologismo e di parzialità non hanno molto senso: la queer theory, come prima di essa il femminismo, risponderà che i concetti di ‘ideologismo’ e ‘parzialità’ sono essi stessi carichi di risonanze ideologiche. Ma se la queer theory è in genere consapevole d’inforcare lenti ideologiche e spesso francamente politiche, la storiografia che si ritiene “imparziale” si rivela alla fine tutt’altro che esente dalle medesime distorsioni, primo fra tutti il falso presupposto che ogni essere umano sia attratto sessualmente da persone del sesso opposto.[15]

Di questa falsa innocenza, l’esempio più lampante è forse la recezione di Cajkovskij, specialmente in riferimento alle Sinfonie. Richard Taruskin ha smascherato il ruolo centrale, anche se mai espressamente dichiarato, svolto dalla consapevolezza dell’omosessualità del compositore – quando non la si è più potuta ignorare – nella valutazione delle sue opere come eccessive, sentimentali nel senso più negativo del termine, e perfino isteriche. Il musicologo interpreta persuasivamente la teoria del suicidio imposto a Cajkovskij da un giurì d’onore segreto per via della presunta relazione con un giovane aristocratico – uno studio recente ha dimostrato l’infondatezza di questa tesi[16] – come dettata da una serie di stereotipi con cui la società e la cultura del ’900 hanno cercato di esorcizzare l’omosessualità. I numerosi biografi che hanno contribuito a inventare questa storia non potevano fare a meno di «un finale tragico in cui l’eroe perisce a causa dei suoi peccati, o una parabola di redenzione in cui, accettando il verdetto del giurì d’onore, il pervertito alla fine dà prova di dirittura morale. In entrambi i casi ciò che veramente conta non è che il suicidio accadde davvero, ma che sarebbe dovuto accadere. È il culmine preordinato di un’esistenza ridotta a stereotipo».[17]

Di recente, un allestimento dell’Evgenij Onegin ha messo in scena il rapporto tra Lenski e Onegin come un’amicizia carica di elementi omoerotici: nella scena del duello, che in questo allestimento diventava un incontro di lotta, il desiderio di Lenski per Onegin rompeva il velo della rivalità sotto cui s’era temporaneamente nascosto.[18] Alla luce delle teorie di Eve Sedgwick (discusse più avanti), questa interpretazione sembra ammissibile anche da un punto di vista musicale: il duetto a canone tra tenore e baritono si può infatti interpretare come il desiderio di un incontro, diciamo pure di un amore, che non può essere soddisfatto. Non aveva dubbi l’interprete di Onegin, il baritono Darryl Knock, nel dichiarare che «l’elemento omosessuale è molto forte nell’opera poiché Cajkovskij era gay. Si vede che è quasi autobiografico».[19] D’altro canto non si può trascurare che Cajkovskij iniziò a comporre l’opera dalla scena della lettera, momento letterario che infiammò la sua fantasia creativa, e sembra difficile negare che il personaggio con cui il compositore s’identifica, o che per lo meno suscita la sua più intensa simpatia – e di conseguenza quella dello spettatore – è Tatiana. Se si vogliono individuare temi autobiografici omosessuali nell’Onegin, il dilemma di Tatiana – confessare di amare? ed a qual prezzo? – può forse essere un candidato più plausibile dell’amicizia trasformatasi in rivalità astiosa tra Lenski e Onegin.

Proprio in questo proliferare d’interpretazioni possibili si fa avanti l’accusa di “distorcere” la storia e i testi che essa ci ha lasciato in eredità per fini ideologici e politici che hanno a che fare più col presente che col passato. Il rischio è reale. Ma se non si può dimenticare che l’omosessualità e le sue manifestazioni sono sempre state nascoste, marginalizzate, quando non soppresse con la violenza – e in questo senso la presenza di un elemento taciuto esige un atteggiamento investigativo preparato a cogliere in testi e apparati discorsivi l’eco che l’omosessualità vi può nondimeno aver lasciato[20] –, nel contempo l’appropriazione del passato, a prescindere dalle finalità, propone un confronto che, proprio attraverso il dialogo instaurato fra l’indagatore e l’oggetto dell’indagine, restituisce una realtà possibile, una nuova vitalità alla storia altrimenti conclusa.

In questa prospettiva, l’ermeneutica novecentesca ha sottolineato con forza quella che, a proposito della filologia, Gianfranco Contini ha definito «la contraddizione costitutiva di ogni disciplina storica»:

 

Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un “passato” e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l’osservatore e l’oggetto; per altro verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la “presenza” dell’oggetto. La filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo problematismo esistenziale.[21]

 

La differenza tra la filologia di Contini e i queer studies è che ciò che al primo pare una contraddizione, un «problematismo esistenziale», non viene percepito come tale dai secondi. A questo proposito, negli ultimi decenni l’ermeneutica e la teoria storiografica meno implicate con lo strutturalismo hanno elaborato un’idea della storiografia come dialogo tra interprete e testo, in cui l’inevitabile parzialità della prospettiva dell’interprete medesimo non distorce l’interpretazione, anzi l’arricchisce. A questa formulazione hanno contribuito, tra gli altri e con diversa enfasi, Hans Georg Gadamer, Jürgen Habermas e Paul Ricœur.[22] In un saggio recente lo storico americano Dominic LaCapra ha formulato l’assunto della storiografia dialogica in questi termini:

 

Un approccio dialogico include il riconoscimento che una proiezione da parte dell’interprete è in qualche modo inevitabile, in quanto l’oggetto dell’investigazione ci riguarda direttamente poiché pone delle domande riguardo a valori o presupposti importanti per noi … Un approccio dialogico non postula un’antinomia tra lettura ed interpretazione, ermeneutica e poetica, lavoro e tempo libero. Esso crede invece che la relazione tra questi elementi vada problematizzata, e si interroga sulle possibilità ed i limiti dell’investigare il significato del passato nel suo rapporto col presente e col futuro.[23]

 

In una riflessione metodologica importante, ancora Taruskin ha messo in guardia contro la tendenza a prendere troppo alla lettera la metafora del dialogo, a confondere cioè, in altre parole, la storiografia con l’antropologia e la sociologia. Alla domanda se ci sia una differenza essenziale tra i soggetti dell’antropologia e quelli della storia, Taruskin risponde secco:

 

C’è una differenza insormontabile che non si può ignorare. I soggetti storici sono morti. Essi non possono più costruirsi in modo attivo … I dialoghi coi morti, o con oggetti inanimati, sono nella migliore delle ipotesi metaforici, nella peggiore fittizi.[24]

 

È difficile dargli torto. Eppure credere che un testo possa essere sia l’oggetto dell’analisi sia l’analista medesimo (senza dimenticare che almeno in parte si tratta di un’illusione) pare proficuo. Conferire autorità soggettiva ad un testo, infatti, significa di conseguenza evidenziare la responsabilità dell’interprete come soggetto, e riscoprire la natura eminentemente interrogativa dell’ermeneutica storica. Proprio gli esiti più recenti e metodologicamente più sofisticati della storiografia letteraria di orientamento queer mostrano i vantaggi di un atteggiamento interpretativo che, nelle parole di Eve Segdwick, «rispetta l’alterità di un momento distante nel tempo senza identificare la distanza temporale con l’alterità».[25]

 

Quasi una breve storia queer dell’opera in musica

 

A dispetto del titoletto, non crediamo affatto che si possa realmente compilare una storia queer dell’opera in musica, né tantomeno crediamo che esista un’opera specificamente queer di cui si possa tracciare il percorso. Sappiamo invece che l’omosessualità si distribuisce su piani tanto diversificati da non ammettere un’identificazione univoca; e se è palese la differenza che corre fra il nobile libertino della Venezia seicentesca e un qualunque gay di oggi che ogni 28 giugno si sente in dovere di partecipare al pride day nazionale, altrettanto evidente dev’essere lo iato che divide quello stesso nobile dai garzoni che andava adescando. Non è discutendo su quanto sia calzante usare un termine moderno come ‘omosessuale’ per uomini e donne dei secoli scorsi che ci si salva dal rischio di colonizzare il passato in chiave moderna. L’antidoto promana semmai dalla consapevolezza del rischio, dalla precisione del dato storico, dalla qualità dell’interpretazione. Gli episodi qui messi in luce, direttamente attinti dalla bibliografia su opera e omosessualità, si dispongono quindi in una sequenza cronologica per mera praticità organizzativa, ma rimangono, come devono, affatto slegati: tanto sono discontinue le circostanze, tanto sono profondamente differenziate, persino opposte, le letture in chiave gay.

 

«E Febo in terra si godea Iacinto»

 

Koestenbaum instaura un parallelo fra quella che, a suo dire, sarebbe l’essenza originaria dell’opera in musica e la condizione omosessuale (e che in parte vuole spiegare l’attrazione che i gay dimostrano per la lirica):

 

Il ricongiungimento è un sogno; Orfeo non riesce a salvare Euridice, e nel melodramma la parola non abbraccerà mai la musica così intimamente da poter dimenticare la frattura. L’opera non può recuperare l’unitarietà a cui aspira. È questo fallimento a rendere queer l’opera, perché la cultura ha stretto l’omosessualità (come la femminilità) in una condizione di incompiutezza, oblio, divisione. Non voglio dire che i gay siano privi di memoria o emotivamente bloccati; dico che la trattazione dell’omosessualità identifica il desiderio gay come “operistico” o eventualmente “orfico”. Siamo ipoteticamente posseduti dal desiderio di superare il confine e riabbracciare la creatura perduta negli inferi, sposa o sposo che mai troveremo.[26]

 

Pur affascinante, si tratta evidentemente di un’interpretazione “ad uso e consumo”: a ben guardare, l’anelito irrisolto alla perfezione riesce a mettere insieme pressoché ogni cosa. Eppure la figura di colui che si spinge agli inferi – quasi sfida alla società, alla morale – per cercare chi non sarà poi capace di salvare – lo spreco edonistico di un amore non riproduttivo – è molto seducente per l’immaginario gay.[27] E d’altra parte le risposte che si possono dare a una domanda chiave – perché si volta Orfeo? –, domanda che nessuno sembra volersi porre, conducono facilmente all’ineluttabilità di una condizione, un modo di essere, di sentire, che ricorda davvicino la favola dello scorpione travolto dai flutti per aver ucciso la rana che lo stava traghettando sull’altra riva del fiume.[28]

Malgrado ciò, manca un approccio queer alle origini dell’opera in musica. Eppure sollecitazioni e spunti in tal senso si rivelano assai più numerosi che in altre aree più indagate. Qualche esempio: il salotto licenzioso di Iacopo Corsi così sensibile, diversamente da Giovanni Bardi, ad un recupero della classicità;[29] la “disponibilità” anche sessuale di Iacopo Peri che affiora in versi satirici coevi;[30] la predilezione per Ovidio, che spesso ha raccontato l’amore fra uomini; l’insistenza con cui si ripropone un mito divenuto nel tempo metafora omosessuale come quello di Orfeo.[31]

In origine l’omosessualità nulla c’entrava con il mito d’Orfeo; sono le Metamorfosi ovidiane (X, 78-85) che per la prima volta motivano lo scempio delle Menadi quale rivalsa sui mutati gusti sessuali di Orfeo (non è improbabile un riferimento al Convito di Platone, che attribuiva il fallimentare recupero di Euridice all’effeminatezza, tipica dei citaredi).[32] Ma sarà proprio la rielaborazione ovidiana ad imporsi in epoca moderna, identificando le dissolutezze sodomitiche con le ultime gesta orfiche. Peraltro, nell’Euridice, Ottavio Rinuccini preferisce sostituire il finale ovidiano (ma il contesto rappresentativo era quello d’una festa nuziale). Pure l’Orfeo di Monteverdi (1607) àltera la vicenda, sebbene il libretto di Striggio prevedesse la feroce incursione delle Menadi.[33] Se la versione “censurata” – vi appartiene anche l’Orfeo parigino di Francesco Buti e Luigi Rossi, 1647 – affiancherà nel Seicento altri più espliciti libretti (la straordinaria Morte d’Orfeo di Landi, 1619, o l’improbabile Orfeo di Aurelio Aureli e Antonio Sartorio, 1672), successivamente – da Gluck in poi – il recupero del mito si concentrerà sul ricongiungimento ad Euridice, e preferirà trascurare qualsiasi riferimento all’omosessualità.[34]

Con Koestenbaum, ci potremmo chiedere se un ambiente artistico come quello fiorentino, che ha lasciato un’impronta così importante sull’immaginario operistico, non voglia, magari inconsapevolmente, sublimare un ideale erotico, e quindi sentimentale, e quindi espressivo. Il rischio della parzialità è in agguato, e Koestenbaum non prova nemmeno a evitarlo:

 

Se anche la Camerata non fosse mai esistita, la si dovrebbe inventare. Sono io che voglio la Camerata; che ho bisogno d’immaginarmi il primo momento dell’opera, pur indistinto ma assoluto. Si potrà credere che l’omosessualità ha dignità, influenza e significato nel momento in cui si voglia ammettere che i gay melomani non si sono attaccati all’opera come parassiti, corrompendone la natura (quasi l’opera fosse un bimbo da costoro “convertito” all’omosessualità), ma che al contrario l’opera è stata queer fin dall’inizio.[35]

 

Organizzare un’obiezione circostanziata a questa appropriazione di un genere musicale e al suo uso apologetico è almeno altrettanto difficile quanto dimostrarne la fondatezza. Koestenbaum, che non scrive un trattato sull’opera ma parla di sé quale omosessuale, surclassa le critiche con lo stratagemma dell’“io voglio”, che non è un modo per poter dire qualunque cosa bensì una chiave per trasformare le proprie affermazioni nell’esplicitazione di una sensibilità.

I problemi sorgono quando si tenta invece di affrontare in modo diretto la predilezione omosessuale per la scena (autori e pubblico), e soprattutto quando si vuole far luce su questa predilezione in un ambito storico ormai concluso e tanto distante dal nostro quanto lo sono le culture dell’ancien régime. D’altra parte le informazioni sono scarse: si è fatto cenno al salotto Corsi, e forse si poteva proseguire a frugare fra le lenzuola della corte fiorentina, dove i Medici non disdegnarono di ospitare giovinetti, musici e cantori.[36] Ma già una domanda sorge spontanea: quanto avranno influito i divertimenti dei granduchi sulla promozione di questo o quel musico? In una società dove, allora più di oggi, tutto si muoveva per lettere di raccomandazione e simpatie personali, non è difficile immaginare che la complicità di una condizione moralmente condannata, anche a prescindere da un eventuale coinvolgimento sessuale o sentimentale, poteva trasformarsi in elemento discriminante per favori e privilegi. Le cronache antiche però tacciono, o tutt’al più satireggiano sul consumo di amori illeciti e furtivi, che in genere non servono a comprendere l’intreccio di relazioni degli ambienti cortesi dell’epoca.

Più significativa invece la presenza veneziana degli Incogniti, accademia di libertini che tanto influenzò il teatro d’opera, annoverando fra i suoi accoliti molti librettisti ed intellettuali impegnati sul fronte del melodramma (Giulio Strozzi, Maiolino Bisaccioni, Scipione Errico, Pietro Paolo Bissari, Bernando Morando, Leone Allacci, Giacomo Badoaro, Paolo Vendramin, Gian Francesco Busenello e altri).[37] Le sale degli Incogniti aprono fin da subito le porte alle teorie libertine filo-omosessuali. Il caso clamoroso dell’Incognito frate Antonio Rocco, che prima del 1630 scrive L’Alcibiade fanciullo a scola (summa apologetica della pederastia, il cui manoscritto Francesco Loredano, fondatore dell’accademia, regala all’Incognito genovese Angelico Aprosio)[38]è solo uno degli esempi che legano l’attività dell’accademia ad ambienti omosessuali.[39]

La spregiudicatezza dei libretti d’opera prodotti dai membri dell’accademia quasi quasi si configura come un indirizzo tematico riconoscibile. Il caso più clamoroso – ne parleremo poi – è l’insistenza con cui tra gli stratagemmi tipici del dramma per musica s’insinua il travestimento con mutazione di sesso, soluzione ipso facto predisposta agli equivoci sessuali.[40] Ma l’omosessualità è anche un modo di pensare in opposizione al sistema: una volta interrotto l’ossequio all’etica pubblica, nulla vieta di trattare l’immoralità. Il caso emblematico rimane L’incoronazione di Poppea, dove fra l’altro compare una delle più esplicite scene omosessuali in tutta la storia dell’opera, quella fra Nerone e Lucano, il favorito dell’imperatore. Il pretesto di cantar l’amore di Poppea è l’alibi necessario a non turbare lo spettatore bigotto, ma il duetto è un’esplicita scena di sesso (che Monteverdi peraltro asseconda organizzando la musica secondo i canoni d’un appassionato amplesso con seduzione congiungimento tensione orgasmo e placato abbandono).[41] È riduttivo interpretare la metafora omosessuale – perché di metafora si tratta: a Busenello non interessa informarci sui gusti sessuali di Nerone – come ostentazione di lussuria e d’immoralità. Il librettista va oltre: vuole liberarsi anche del più intoccabile fra gli umanissimi dèi. Dopo Virtù e Fortuna, anche Amore soccombe (ma lui crederà d’aver vinto, cieco com’è):[42]Nerone, ora lo sappiamo, non è innamorato di Poppea, ma la sposa per puro capriccio – il duetto d’amore conclusivo sarebbe piuttosto una concessione al gusto degli spettatori, aggiunta a cose fatte –, la sposa insomma per ostentazione gratuita di potere («A chi può ciò che vuol, ragion non manca» è la frase-chiave nel violento scontro di Nerone con Seneca). E d’altra parte Poppea è prima di tutto una meditazione sul potere.[43]

Che l’omosessualità fosse per gli Incogniti un argomento come un altro – se non addirittura privilegiato –, a prescindere dalle propensioni personali dei singoli accademici, lo si coglie anche dalla naturalezza con cui Barbara Strozzi mette in musica e pubblica il Lamento sul Rodano severo. La compositrice, figlia adottiva di Giulio Strozzi, e col padre fulcro dell’Accademia degli Unisoni – un sottogruppo musicale degli Incogniti[44] –, pubblica il Lamento nel 1651 e poi nel 1654 con dedica agli Incogniti. Vi si narra il caso parigino che vide il cardinal Richelieu pretendere e ottenere la condanna a morte dei colpevoli dell’attentato del 1642, fra cui il marchese Henri de Cinq-Mars, favorito di Luigi XIII. Il dramma dei due nobili amanti, cantato dalla Strozzi e forse scritto dallo stesso Francesco Loredano, colpisce per intensità e qualità della scrittura poetica e musicale, ma anche perché lamento “al maschile” – il genere del lamento è tradizionalmente femminile[45] – dedicato al proprio compagno con insoliti toni di tenerezza («al devoto collo | tu mi stendevi quel cortese braccio») e complicità sessuale («quando meco godevi | di trastullarti in sollazzevol gioco»).

Situazioni altrettanto cruciali per le sorti del teatro in musica come quelle degli Incogniti non sono altrimenti note, ma altre, simili al caso di Firenze, dove l’omosessualità non figura come elemento portante ma certo come una ruota dell’ingranaggio, si potranno facilmente rintracciare a Roma – la mecca del vizio sodomitico, per la satira La musica di Salvator Rosa (1640) – come nella Parigi di Mazarino e Lully, o nella Londra di Händel e Bononcini. Gli spunti che traspaiono qua e là dalle biografie di musicisti e protettori (in studi invero perlopiù assai reticenti) rivelano che c’è parecchio da investigare. Antonio Cesti, almeno in un’occasione scampato all’accusa di sodomia, è un esempio significativo. I rapporti che instaura con Roma Venezia Innsbruck e Vienna, tutti vigorosamente sponsorizzati dalla corte fiorentina dei Medici, passano spesso per sovrani o cardinali che condividono i suoi gusti sessuali e musicali: caso appariscente è il legame con Ferdinando Carlo del Tirolo (il suo nuovo teatro a Innsbruck viene inaugurato con la Cleopatra di Cesti).[46]

Dopo il contributo di Thomas, che opportunamente smonta il castello d’ipocrisie costruito intorno al privato di Händel, sarà, per esempio, doveroso ripercorrere gli spostamenti del “sassone”, la cui folgorante carriera passa per molti dei salotti omosessuali e musicofili d’Europa:[47] ancora diciottenne ad Amburgo sulle ginocchia del libidinoso Ariosti, poi a Firenze nelle grazie del solito Ferdinando de’ Medici, quindi ospite dei cardinali più chiacchierati di Roma (da Ottoboni a Pamphili), e finalmente, dopo un soggiorno nella dissoluta Venezia, a Londra, conteso dagli aristocratici britannici. Gli si aprono le porte della casa del giovane conte di Burlington (amante dell’architetto William Kent);[48] la residenza, una sorta di Bloomsbury ante litteram, è il luogo dove s’incontrano artisti e omosessuali à la page. In questo salotto viene concepito il progetto della Royal Academy e del coinvolgimento di Giovanni Bononcini (sottratto ai favori del cardinale Pamphili), donde una rivalità costruita e fomentata ad arte. Illazioni? Forse, ma non ci stupiremmo se un’indagine seria ricostruisse questa rete che, meglio di qualsiasi studio sulla committenza, spiegherebbe favori, complicità, entusiasmi e fortune altrimenti incomprensibili.

Conoscere le continue accuse di omosessualità rivolte, poniamo, alla corte del cardinal Mazzarino,[49] grande importatore d’opera italiana e di castrati-spia,[50] e in seguito a Lully e al suo librettista Quinault,[51]ci interessa per indagare le complicità politiche che la nobiltà parigina intesseva intorno al teatro d’opera. È in effetti appariscente che la rinascita musicale francese, pur coincidendo con il regno di Luigi XIV (ossia, curiosamente, il primo sovrano a non essere sospettato di omosessualità dopo almeno cinque generazioni), è concepita, messa in atto e resa politicamente necessaria – ossia eretta a strumento di potere – dai medesimi paladini del «vitio nefando». Siamo sicuri che il cardinale prima e il fiorentino poi non unissero all’utile (della ragion di Stato) il dilettevole di una corte percorsa da gente di teatro dai facili costumi? Siamo sicuri che alimentare un sistema, quello teatrale, così indissolubilmente legato a prestazioni sessuali di scambio non fosse un modo per creare una sorta di corte-nella-corte su cui operare un controllo diretto?[52] Il fenomeno continua nei secoli seguenti, riconoscibile – per citare solo i casi più noti – nel salotto artistico della principessa Polignac nella Parigi degli anni ’20 del Novecento, nonché nell’entourage che gravitava attorno a Diaghilev e ai Ballets russes.[53]

È evidente che questo sistema, capacissimo di riconoscersi come peculiare, abbia voluto forzare la mano per affermare la propria cultura, la propria estetica e, nello specifico, le proprie passioni. Eppure bisogna aspettare Lulu di Alban Berg (1935) perché l’opera in musica abbia il coraggio di inscenare un desiderio omosessuale senza compromessi. Per scavalcare i limiti pretesi dalla morale comune il dramma per musica ricorrerà con una certa sistematicità a tre stratagemmi: il travestimento con cambio di sesso, previsto dall’intreccio; la misoginia tipica dell’uomo d’armi (o, per le fanciulle dall’indole più bellicosa, il disprezzo d’amore); l’amicizia indissolubile (sia maschile sia femminile).

 

«Femina Delio? Che miro!»

 

Nell’opera in musica si possono distinguere tre livelli di cross-dressing (per dirla col termine inglese che di solito designa il travestimento con mutamento di sesso): il ruolo interpretato per scelta o necessità contingenti da un attore-cantante di sesso opposto (Marilyn Horne nel Rinaldo, originariamente per un castrato, o Michael Aspinall che mette in burla Tosca); lo scambio di sesso previsto dall’autore ma ininfluente ai fini dell’intreccio (il tenore che fa Arnalta nella Poppea, Ida Rubinstein nel Martire de saint Sébastien dannunziano); il travestimento provvisorio con cambio di sesso interno allo sviluppo della trama (Achille, Semiramide). I primi due casi sono frequentemente trattati nella letteratura gender, spesso in relazione a ruoli interpretati dai castrati (ne parliamo più avanti). L’ultimo, il più significativo dal punto di vista drammaturgico, ha goduto invece di un interesse abbastanza contenuto perché, almeno nell’opera, la sua fortuna si limita perlopiù al periodo barocco.

La teoria secondo cui la distinzione di genere esprime innanzitutto un rituale sociale, non solo in riferimento al sesso ma rispetto ad ogni forma di dualismo,[54]permette di riconoscere nel travestimento teatrale non tanto un’azione sovversiva quanto un modo per capire e interpretare la realtà del quotidiano. Treadwell rilegge in questa chiave il cross-dressing di Belluccia alias Peppariello che negli Zite ’n galera suscita gli amori di Ciommetella e della vecchia Meneca.[55] È il 1722, e il libretto di Saddumene appartiene ad un genere – la commedia per musica napoletana – che punta sul realismo assai di più di quanto non facesse l’opera veneziana. Alcuni personaggi mostrano perplessità per questo Peppariello che non sembra «né carne né pesce» (e gli amori ch’egli suscita sono un modo per mostrare la stupidità delle pretendenti): è la fine di un’epoca, quella del travestimento con equivoco sessuale sponsorizzato dai teatri veneziani. Ormai, dal Combattimento di Tancredi e Clorinda (1624) all’Achille in Sciro metastasiano (1736), si è visto di tutto: (a) pulzelle virilmente armate e imperatori che si dilettano con le gonne, (b) uomini in vesti muliebri per accedere alle stanze dell’amata e viceversa, (c) fanciulle in abiti maschili che fan strage di cuori femminili ed eroi sedotti da valorosi provvisoriamente in gonnella, (d) attentati perpetrati sotto mentite spoglie femminili (raro il contrario), (e) altri più generici travestimenti senza gravi conseguenze, sia maschili che femminili.[56]

La casistica vuol dare anche quantitativamente il senso d’un fenomeno che altrimenti rischia di apparire eccezionale e non, com’è in realtà, strutturale alla drammaturgia seicentesca. In effetti il travestimento – non solo sessuale ma anche di ruolo gerarchico, economico, sociale (sulla scorta p. es. di un modello come Il prencipe giardiniero di Benedetto Ferrari, del 1644) – ha potenzialità che vanno al di là degli sviluppi nell’intreccio drammatico.[57] Quando il travestimento è accessorio, ossia quando di per sé non mira a raggiungere altri fini, allora soggiace ad un giudizio morale e si differenzia fra uomo e donna. Il maschio che si traveste per lascivia ed eccentricità – il caso emblematico è Eliogabalo – attua un sovvertimento sociale, e questo gesto è condannato, anche se produce ilarità. La donna che si veste da uomo senza aver necessità di occultarsi – è importante la tradizione spagnoleggiante delle amazzoni[58] – è magari eccentrica, ma in genere le si lascia spazio perché si redima, magari innamorandosi d’un uomo e ritrovando la sua femminilità. In questi termini, il confine fra omosessualità e cross-dressing è labile, e spesso è l’unico spazio che si concede al desiderio omosessuale. Se invece l’interesse del drammaturgo non è di tipo morale, ovvero non mira a presentare il travestimento come un comportamento da giudicare socialmente, in genere lo scopo è di muovere al riso, in questi casi indotto ancora una volta da un fraintendimento omosessuale. Ma perché l’equivoco sessuale induce al riso? La risposta, in chiave antropologica, sta forse nel valore sociale del travestimento stesso.

Garber, in un contributo ad ampio respiro sul travestimento, e non solo teatrale, propone una prima risposta attraverso la nozione di «categoria della crisi»:

 

Con ‘categoria della crisi’ mi riferisco al fallimento delle distinzioni chiare e nette, ad una linea di confine che si fa permeabile, che permette gli scavalcamenti da una (apparentemente distinta) categoria all’altra: bianco/nero, ebreo/cristiano, nobile/borghese, padrone/servo…[59]

 

È evidente che la contrapposizione maschile/femminile è la più intensamente sentita, ed è quella che il cross-dressing più direttamente mette in crisi. In tal senso assurge quasi a modello di ogni crisi specifica. Ma in una condizione come il teatro, dove tutto, dalla storia alle scene ai sentimenti, è travestimento, è chiaro che il cross-dressing esprime soprattutto sé stesso, esprime cioè la contrapposizione di due sessi, ovvero l’insussistenza di tale contrapposizione. Se l’imperatore Domiziano può innamorarsi di Floro perché questi decide di farsi passare per Idrena (Domiziano, 1673), allora vuol dire che è possibile innamorarsi di un’immagine (la femminilità di Floro) e che ogni cosa può esser finta, e allora tutta questa gran differenza fra un uomo e una donna perde di senso. Tutto ciò è un pericolo: fin dall’antichità classica il travestimento era vietato per legge perché contrario all’ordine costituito.[60] Tale sarà poi l’opinione della patristica cristiana; dal Medioevo al tutto il Settecento, le leggi suntuarie si preoccuperanno di vietare abbigliamenti in contraddizione con il genere sessuale e la gerarchia sociale.[61]

Il terrore del travestimento – un terrore tutto al maschile, e solo di riflesso femminile – nasce dal timore di perdere un’identità che colloca l’uomo un gradino sopra la donna. Se maschio e femmina possono indossare gli stessi vestiti, compiere le stesse azioni e avere magari le stesse idee – a prescindere dal fatto che ciò possa avvenire –, perché dovrebbe essere proprio l’uomo a detenere un potere sulla donna? quella donna che – quante volte lo si è sentito ripetere? – nasce dall’uomo, da un suo lombo, da quella costola che prima d’essere carne della sua carne pretende di esibire una gerarchia, anche generazionale: «primo fu il maschio». La Natura, su cui si fonda la distinzione fra maschile e femminile, è l’alibi necessario per esplicitare la diversità dei sessi, quella diversità che giustifica una gerarchia. Il travestimento sovverte i valori apparenti; l’omosessualità, quelli reali. Non è un caso che per entrambi la Bibbia preveda un’ammonizione dove ricorre la parola abominio (Deuternomio 22,5, Levitico 18,22).

Il travestimento, a questo punto, rimane tollerato in situazioni circoscritte – il carnevale, la festa, lo spettacolo, il teatro – per essere meglio esorcizzato e tenuto sotto controllo, e insieme per riconfermare tanta ribadita dualità sessuale. Allo stesso modo l’omosessualità trova un suo spazio nell’ambiguità scaturita dagli insistiti cross-dressing, che in qualche occasione rischiano di oltrepassare il tollerato e, con la scusa del paradosso, d’insinuare messaggi che vanno oltre la semplice burla. Casi emblematici sono La Calisto di Giovanni Faustini,[62] Massimo Puppieno di Aurelio Aureli (1684)[63] e Tetide in Sciro di Sigismondo Capece (1712).[64]

Si comprende ora come il travestimento induca al riso, in quanto movente d’un confronto con la stupidità dell’ingannato (che obbliga alla derisione per non partecipare all’errore). Ma ancora, quando è l’attore a vestire panni femminili, possiamo ridere del suo avvilimento – il travestimento in questa direzione, da maschio a femmina, è soprattutto una perdita di potere, e non solo un mutamento sessuale –, mentre la donna in uomo fa semmai sorridere per la stoltezza di chi ricerca una condizione che non è in grado di sostenere. È tutto un sistema che più o meno consapevolmente mira a condannare ogni possibile sovvertimento della gerarchia consolidata.[65]

 

«Non sei castrato già?» – «Non sono affè!»

 

La teoria gender si è occupata ripetutamente dei castrati; anzi, fra gli approcci queer all’opera barocca l’aspetto attualmente più insistito è proprio la componente omosessuale che sembra coinvolgere i castrati in relazione (a) all’interprete, (b) al ruolo, (c) agli spettatori che ne apprezzavano l’arte.

(a) Proprio una delle migliori e più documentate sintesi sui castrati apparse di recente fa riferimento alle loro «storie d’amore, omo o eterosessuali»,[66]quasi fossero ovvie le implicazioni omosessuali del loro privato. Quando mai simile distinzione si sarebbe potuta operare in altri contesti? L’atteggiamento “politicamente corretto” è in questo caso sintomo di pregiudizio.[67]

È tuttavia innegabile che fin dagli esordi teatrali dei castrati una delle armi più usata dai loro detrattori sia stata l’accusa di omosessualità.[68] È possibile però rintracciare il filo conduttore che lega il discredito loro rivolto, sia in Italia sia all’estero (dove le ostilità, nazionalizzate, sono più appariscenti).[69] In questo senso il recente saggio di Gilman, sulle reazioni suscitate dalla comparsa dei castrati a Londra nei primi decenni del Settecento, è un ottimo esempio di critica queer.[70] Gilman non può non riconoscere che il favore per i castrati, sostenuto da partigianerie impresariali, resse fintanto che lo stupore e la meraviglia allontanarono la paura del monstrum, paura che, ribaltata in derisione satirica, muoveva dalla minaccia che il castrato di successo opponeva al modello di potere tradizionale, ovvero quello del maschio britannico, padre e marito. Il castrato “importato” poteva essere liquidato come «sodomito» perché si rivelava contemporaneamente seducente (per l’immaginario erotico femminile e maschile), straniero (più precisamente italiano) e innaturale (sia perché castrato sia perché attore).[71] Tre prerogative che rientravano nell’ampio concetto di ‘effeminatezza’ (sinonimo di interesse privato, egoistico e irrazionale), che necessariamente si contrapponeva all’ideale britannico e repubblicano del ‘guerriero’ (al contrario teso a difendere i valori sociali della comunità).[72]

Per via diversa Fernandez giunge sostanzialmente alle stesse conclusioni rileggendo criticamente il Traité des eunuques del 1707, impropriamente considerato il primo studio sull’argomento.[73]Il testo, che non si occupa di teatro, condanna senza mezzi termini i castrati (meno la pratica della castrazione), e Fernandez riconosce in tanta severità una difesa della famiglia come sano nucleo sociale e unico strumento di riproduzione. Il castrato – per l’autore del Traité è italiano e quindi straniero – diventa una minaccia al sistema e pertanto dev’essere allontanato. Non si fa fatica ad instaurare una relazione tra tale ostilità e quella modernamente rivolta agli omosessuali.

 

Il suo discorso sarebbe stato applicato, senza cambiare una virgola, al nuovo spettro che stava per subentrare agli eunuchi nella paura della borghesia: gli omosessuali. Il lettore moderno farà da solo i raffronti. Tollerati come artisti, vilipesi come cittadini, giudicati indegni di esercitare la tutela dei minori, additati alla pubblica riprovazione, benché aureolati di un fascino misterioso.[74]

 

È chiaro che anche in questo caso, come per il travestimento, la minaccia non è alla specie umana ma alla supremazia del maschio. Il re può regnare fintanto che non si comporta da servo. Se il servo riconosce sé stesso, o parte di sé, nei comportamenti e nelle scelte del sovrano (potendo in questo senso scambiare le esperienze), che cosa gli impedirebbe di condividerne anche il potere?

(b) Oltre al fatto che la voce acuta in un uomo spiazza in parte la moderna sensibilità, il castrato esaspera in quest’epoca il ruolo en travesti sia indossando costumi femminili, sia permettendo alla primadonna di svolgere ruoli maschili scritti per voce acuta. Questo fatto ne rende oggi problematica la sostituzione, proprio in un’ottica gender. Ci pare una verità troppo spesso taciuta che la fortuna del castrato debba imputarsi in primo luogo alla carica di ambiguità erotica che questi esprimeva più che alla sua qualità vocale. Quanto deve la fortuna dell’opera barocca al sovvertimento dei valori sessuali comuni? Quanto alla rimozione omosessuale, sia maschile sia femminile, ivi rappresentata?[75]

Da queste premesse meglio si comprende la trasformazione subita dall’opera dopo l’affermarsi degli ideali rivoluzionari e popolari. Il melodramma dell’Ottocento rifugge le ambiguità sessuali come espressioni dell’artificio sofisticato e corrotto dell’aristocrazia;[76] sulla scena l’eroe aggrava la voce, mentre in strada il cittadino enfatizza caratteristiche fisiche utili a distinguere i sessi (i maschi esibendo per esempio barba o basettoni e indossando pantaloni a mezzagamba aderenti ai genitali, le donne scoprendo le spalle e il seno e preferendo le gonne strette ai fianchi).

La fine dei castrati non sembra aver dato tregua all’ambiguità propria dei ruoli che essi interpretavano. La restituzione delle voci acute nei moderni allestimenti del teatro barocco continua a creare scompiglio. In ambito gender si è ripetutamente puntato il dito sul caso, a torto creduto emblematico, del rifacimento ottocentesco dell’Orfeo di Gluck;[77] qualche teorizzazione sull’ermafroditi­smo è scaturita dalle recensioni del recente film sul Farinelli; e c’è chi riscopre nell’uso delle donne al posto dei castrati l’ambiguità sessuale del teatro barocco in chiave lesbica.[78]

(c) Ad ascoltare i castrati si diventa omosessuali, si diceva fra Sei e Settecento.[79]L’accusa scaturiva da un’ingenua osservazione del costume romano (più esibito che in altre città proprio per l’alta presenza di ecclesiastici): i castrati – ufficialmente uomini di teatro e non oggetti di piacere – offrivano l’alibi per esibire in pubblico liaisons e concubinaggi. Sono esplicite le parole del «famoso monsignore» che ragguaglia il Casanova:

 

Non sarebbe possibile senza dar scandalo invitare a cena a quattr’occhi una bella cantante. Invece si può offrire la cena a un castrato. È vero che poi si va a letto con lui. Ma tutti devono ignorarlo. E se la cosa si viene a sapere non è possibile giurare che ci sia stato del male, perché in fin dei conti è un uomo, mentre non si può andare a letto con una donna se non per goderne.

– È vero, monsignor. La cosa più importante è di privare il giudizio della certezza, giacché gli individui ben educati non pronunciano mai un giudizio temerario.[80]

 

Se i castrati rendevano palesi le relazioni omosessuali, altrimenti occulte, l’operazione più semplice era prendere per causa il sintomo: ovvero spostare sul castrato il focolaio del vizio, pregiudizio agevolato dalla possibilità di scaricare colpe infamanti su persone che forse non erano più persone. Ma se allora i castrati si trasformano in cartine di tornasole della «pederastia» nobiliare, come direbbe il Casanova, dobbiamo ammettere che tanti, troppi signori dai gusti sconvenienti s’improvvisavano protettori dell’opera.[81] La domanda sorge spontanea: si potrà azzardare che, malgrado il diffuso orrore borghese, siano stati proprio gli ambienti omosessuali aristocratici a fare la fortuna dei castrati sulla scena?

Non siamo in grado di dare una risposta, e forse non lo vorremmo nemmeno fare. Certo l’arco storico così ampio e l’attenzione ad un desiderio rimosso, mai venuta meno, fanno supporre che lo spettacolo d’opera fosse disponibile alle passioni più varie, più o meno predominanti. Ma un elemento non trascurabile si trova forse nel fascino descritto da Koestenbaum, per cui la seduzione vocale diventa un’esperienza quasi erotica, dove il canto raggiunge una corporeità fisica. Prima di Koestenbaum, anche il già citato Fernandez, scrittore e saggista dichiaratamente gay e appassionato d’opera, in un suo famoso romanzo ambientato nel Settecento napoletano (Porporino, 1974), s’immagina che il cantante descriva con parole a doppio senso la sua voce di giovane castrato:

 

I suoni, non più semplice vibrazione di atomi nello spazio, ma calda materia ed emulsione vivente, avevano lo spessore della panna, la trasparenza dell’opale … io li sentivo, come dire, agitarsi sotto la lingua, sciogliersi nel succo delle mucose, colorarsi al roseo palato, intiepidirsi contro l’avorio dei denti e infine gonfiarsi e sbocciare all’avvicinarsi delle labbra … la voce del castrato, essendo per forza il suo organo di emissione, è tutta impregnata di quella linfa che nel suo corpo non ha altra via d’uscita.[82]

 

Non v’è dubbio che la metafora erotica è una proiezione dell’autore, ma dobbiamo supporre che simile suggestione debba avere condizionato anche il pubblico sei-settecentesco, se già Angelini Bontempi nel 1695 «paragonava il potere del canto a quello dello sperma».[83]

 

«Finché il mio core battere io senta sul tuo cor»

 

Tra Sette e Ottocento la fine dell’ancien régime e la diffusione della cultura borghese introducono una sessualizzazione dell’identità personale ed una divisione dei generi insistita ed enfatica (si pensi all’evoluzione della moda di cui s’è detto). L’opera partecipa a questa evoluzione con una progressiva disinfestazione dalle ambiguità che l’avevano caratterizzata nei primi due secoli. Un esempio interessante in proposito lo offrono le vicissitudini del libretto dell’Achille in Sciro metastasiano (1736), in cui il travestimento femminile di Achille per sfuggire alla chiamata alle armi offriva il destro per alcune scene che mettono in evidenza l’ambiguità sessuale.[84] Sia un libretto torinese del 1785 (musica di Gaetano Pugnani) sia parodie in dialetto genovese e napoletano della fine del secolo riscrivono o addirittura omettono tali scene, rimuovendo ambiguità e doppi sensi in un tentativo di censura tanto più significativo quanto ovvio, evidentemente considerato una pratica legittima (i lettori-ascoltatori di questi testi certo conoscevano l’originale del Metastasio).[85]

Questo processo di “eterosessualizzazione” avviene tuttavia non senza resistenze. Si pensi per esempio a Rossini, al perdurare nelle sue opere serie di parti per eroi maschili scritte per castrati (Aureliano in Palmira) e contralti en travesti, al rifiuto della mascolinità muscolosa ostentata con orgoglio nel Do di petto,[86] e alla nostalgia da sopravvissuto che traspare nella celebre boutade sui «douze chanteurs de trois sexes, hommes, femmes et castrats» necessari per eseguire la Petite messe solennelle. In questo senso il terzetto che precede il finale nel Comte Ory può essere visto come uno sguardo al passato, con Ory travestito da pellegrina che al buio crede di amoreggiare con la contessa Adele ma indirizza invece le sue effusioni al paggio Isolier – una parte en travesti –, il quale a sua volta ne approfitta per avvicinarsi alla contessa più del dovuto. Rossini crea un quadro musicale carico d’una sensualissima ambiguità, che non sarà più udita per un secolo a venire.[87] Per contro, Verdi, «nemico giurato di far cantare una donna vestita da uomo»,[88] finirà per scrivere la parte di Ernani per tenore invece che per il previsto contralto: segno di un’evoluzione culturale e musicale profonda e ormai radicata.

Le parti en travesti sopravvivono fin verso la metà del secolo, pur se negli ultimi decenni si limitano a personaggi di giovinetti imberbi come i piccoli musici nelle opere donizettiane (Smeton nell’Anna Bolena, Pierotto nella Linda di Chamounix) o Siebel nel Faust di Gounod, che in comune hanno qualità come l’innocenza e la semplicità d’animo.[89] Il Prince charmant di Cendrillon (1899) e il Chérubin nell’opera omonima (1905) di Massenet partecipano già di quell’atmosfera liberty sensuale e “decadente” da cui scaturirà, tra l’altro, l’Ida Rubinstein che danza nel ruolo eponimo nel Martyre de saint Sébastien di d’Annunzio e Debussy, e nella cui estetica l’ambiguità sessuale svolge un ruolo importante.[90] I cross-dressing interni alla trama, tanto frequenti nell’opera barocca, diventano rari nell’Ottocento. A parte i casi di Fidelio e Dalibor di Smetana (che all’opera beethoveniana palesemente si ispira),[91] gli esempi di questo tipo sono scarsi e compaiono in opere comiche – il matrimonio tra il dottor Cajus e Bardolfo vestito da Regina delle fate nell’ultima scena del Falstaff – oppure in scene dal tono comunque “basso”, come il primo quadro del second’atto della Forza del destino, in cui Carlo, anch’egli travestito (da studente), indicando Leonora in abiti maschili, chiede con malizia: «Per altro, è gallo oppur gallina?». È solo col primo Novecento che il travestimento ricompare sulle scene operistiche: Octavian in abiti femminili che affascina Ochs nel second’atto del Rosenkavalier – ovvio l’omaggio alle Nozze di Figaro –, o l’ussaro che si traveste da donna per intrufolarsi nella casa dell’amata in qualità di cuoca e viene smascherato quando viene sorpreso a farsi la barba in Mavra di Stravinskij. Il recupero del passato costituisce l’alibi in cui collocare alcune parti en travesti novecentesche, come il Compositore nel prologo dell’Ariadne auf Naxos e il già nominato Octavian. Il Musico che canta il “madrigale” nel secondo atto della Manon Lescaut rientra in questo contesto solo a metà, dal momento che fa parte di una rappresentazione, con intento moralistico, del Settecento inteso come artificio, finzione ed effeminatezza, un’epoca di «trine morbide», minuetti e finti nèi alla quale s’oppone la virile impulsività di Des Grieux.

L’Ottocento non solo disinfesta l’opera dalle ambiguità sessuali dei secoli precedenti, ma le sublima. Anzi, sublima poiché disinfesta. La tensione omoerotica che prima si esplicitava nell’equivoco ora spesso si nasconde «sotto il sacro manto d’amicizia», per dirla con Don Ottavio. Segdwick ha interpretato vari testi della letteratura inglese del Sette-Ottocento in termini di male homosocial desire, ossia come manifestazioni del desiderio (non necessariamente sessuale) tra uomini che può instaurarsi in una società patriarcale fondata sulla separazione delle sfere d’azione e di riflessione tra uomini e donne. Segdwick è interessata in particolare al triangolo erotico del desiderio omosociale, in cui la donna può essere un canale attraverso cui far passare un flusso di desiderio i cui soggetti, spesso inconsci, sono i due uomini che apparentemente desiderano questa stessa donna, secondo il principio che «non c’è un confine preciso tra il volere ciò che è posseduto da altri (per esempio da papà), e volere papà».[92] Ne discende che, tra l’altro, l’odio per il rivale in amore può essere interpretato come una forma di desiderio, o comunque di legame tra uomini (male bonding). Il male bonding non si limita tuttavia al triangolo erotico, ma può assumere la forma di un’amicizia intima, in cui tuttavia il desiderio non può e non deve concretizzarsi sessualmente, perché se ciò avvenisse i presupposti sociali e culturali della società patriarcale che promuovono il male bonding ne verrebbero seriamente minacciati.[93] Terry Castle, nell’allargare la prospettiva alle amicizie femminili, ha sottolineato proprio come esse implichino in potenza la capacità di destabilizzare le strutture patriarcali, e ne ha celebrato le possibili interpretazioni sovversive.[94]

L’opera ottocentesca enfatizza tanto spesso e con tanta insistenza le amicizie tra uomini e tra donne che il compito qui non può essere quello di elencarle – il lettore ci pensi un momento e non gli basteranno le dita per contarle –, ma piuttosto quello di distinguere i casi che si prestano ad un’interpretazione omosociale. Riccardo ed Oscar in Un ballo in maschera potrebbero sembrare a prima vista tra i candidati più quotati, non solo per il fatto che Oscar è un soprano en travesti, ma anche perché la sua leggerezza, la passione per le feste ed i divertimenti, l’entusiasmo per i travestimenti sono tratti che dalla cultura ottocentesca (e non solo) erano interpretati come “femminili”. Ma il legame tra i due non riceve un’attenzione specifica, non diventa un tema centrale nell’opera: non c’è una scena in cui i due sian soli, e le dichiarazioni d’affetto da parte di Oscar per Riccardo compaiono entro pezzi d’assieme, dove è difficile percepire il testo. Sarà stata una volontà, inconscia, da parte di Verdi di evitare qualsiasi equivoco possibile? Certo è raro che nelle sue opere l’amore tra uomo e donna riceva un trattamento drammatico e soprattutto musicale vibrante quant’è quello di Riccardo e Amelia, e mai una scena di seduzione come il duetto tra soprano e tenore, centro gravitazionale del Ballo, è stata tanto travolgente ed infiammata.

Solo pochi anni dopo il compositore mette in scena una delle amicizie maschili più intense del teatro d’opera ottocentesco, quella tra Carlos e Posa nel Don Carlos. Forti amicizie maschili espresse in termini tanto enfatici quanto espliciti non mancavano all’opera settecentesca: si pensi per esempio agli Oreste e Pilade nell’Ifigenia in Tauride di Traetta (1763) e nell’Iphigénie en Tauride di Gluck (1779), opere in cui manca una vicenda d’amore eterosessuale e il cui modello ideale rimane probabilmente l’Olimpiade del Metastasio (1733), dove il coinvolgimento di Megacle per Licida si rivela più intenso degli amori con le rispettive compagne (Argene commenterà perplessa: «Dunque ha più saldi nodi | l’amistà che l’amore?» III, iv). La vestale di Mercadante su testo di Cammarano (1840) presenta poi due fortissimi legami d’amicizia, maschile (Decio e Publio) e femminile (Emilia e Giunia), molto più in vista qui che nell’omonimo dramma di Spontini. Non sfugga però che si tratta in questi e molti altri casi di opere di soggetto classico, greco-romano, in cui la distanza temporale avrebbe aiutato a digerire quella che tutti consideravano una realtà specifica del mondo antico, l’amore tra due uomini o due donne.[95]

L’amicizia tra Carlos e Posa riprende in un contesto “moderno” il tema antico, connotandolo politicamente. Dei due è Posa, privo d’interessi amorosi, quello che dà voce al suo sentimento con maggiore intensità, e che sacrifica la vita per l’amico cantando un’aria lunga ed appassionata nella scena del carcere nel penultim’atto. Roger Parker ha rilevato di recente che questo personaggio è stato spesso criticato come psicologicamente poco complesso, ergo poco interessante, e che la musica che Verdi gli fa cantare è stata definita generica e un po’ all’antica. Parker, nel discutere alcuni momenti particolarmente intensi di «C’est mon jour», reclama per Posa una complessità psicologica non inferiore a quella degli altri personaggi principali dell’opera, e avanza l’ipotesi interessante che le critiche fatte al personaggio siano in realtà legate all’oggetto del suo amore: «Forse Posa ci mette davanti ad un tipo di caritas umana che noi, nel tardo ’900, facciamo molta più fatica ad articolare dei nostri predecessori di un secolo fa. In altre parole, Verdi mise in musica qualcosa che è difficile per noi ricatturare, forse perfino riconoscere quando ci si para davanti».[96] La sensazione, invece, è che noi, nel tardo ’900, riconosciamo fin troppo bene quella carica omoerotica che l’Ottocento era riuscito a sublimare, e in questa prospettiva non possiamo fare a meno d’interrogarci sulla natura della bruciante intensità delle espressioni d’amore di Posa per Carlos.

Una rilettura attenta dell’Otello verdiano dal punto di vista delle teorie di Sedgwick porterebbe a risultati interessanti, ma, data la complessità delle correnti incrociate di desiderio, ulteriormente complicate dall’elemento razziale, richiederebbe uno spazio eccessivo. Smith compie un’operazione simile su Norma e Aida, in un saggio ricco di astuti suggerimenti soprattutto sull’opera belliniana (sarebbe stato ancora più convincente se avesse incluso un’indagine storica sull’amicizia femminile e le sue espressioni nell’Italia del primo Ottocento).[97] Il triangolo erotico omosociale di Sedgwick è qui ribaltato, dal momento che Pollione funziona come canale attraverso il quale passa il flusso di desiderio tra Norma e Adalgisa. Ma c’è di più: le due donne sono legate dal culto per Irminsul, condividono uno spazio, quello del tempio, da cui gli uomini sono esclusi: Smith lo paragona ad un convento di suore, dove Norma sarebbe la madre superiora, cui Adalgisa, disperata novizia, confessa l’amore per Pollione. L’omosocialità femminile del convento, con la sua latente dimensione erotica, costituisce un punto di vista da cui leggere il duetto del second’atto, in cui il polo maschile del triangolo è infine cancellato e le due donne giurano di restare unite per la vita, anche a costo dell’esilio. Nella cabaletta la musica pare evocare l’intensa immagine del testo, «finché il mio core battere | io senta sul tuo cor», con un canto che ricorda, per esempio, quello dei duetti tra Semiramide e Arsace nell’opera di Rossini, con la differenza, cruciale, che Arsace è un personaggio maschile assegnato ad un contralto en travesti, di cui Semiramide è innamorata, mentre Adalgisa è donna. Si badi, non si vuole in alcun modo affermare che tutti gli innumerevoli esempi di grandi amicizie o, men che meno, di triangoli amorosi nell’opera ottocentesca si prestino a una lettura omoerotica: solo un’analisi attenta, ma anche il più possibile scevra da pregiudizi, può portare a risultati convincenti. La possibilità nondimeno esiste, e ci pare sia degna di attenzione.

Nel suo studio sull’androginia nell’opera di Wagner, Nattiez separa tale concetto dall’omosessualità in modo un po’ troppo netto e sbrigativo.[98] La complessità metaforica e la ricca simbologia sessuale del teatro wagneriano non possono che incoraggiare un tipo di lettura che su tali oggetti sta affinando i propri metodi, ma il caso Wagner non ha per ora attratto particolari attenzioni da parte della critica queer. Ci pare tuttavia che, per esempio, almeno il Parsifal meriti un’analisi circa le implicazioni sessuali. Fruttuose ricerche sono invece state effettuate sul culto tributato alle opere wagneriane nei circoli omosessuali maschili tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo. La cultura omosessuale nella Germania dell’epoca, in larga parte sotterranea ma nondimeno molto diffusa, sviluppò una vera e propria ossessione per Wagner, che influenzò non solo la letteratura e le arti figurative, ma arrivò anche ad avere un impatto sugli allestimenti di Bayreuth.[99]

 

«Lulu! Mein Engel!»

 

Nel Novecento l’omosessualità esplicita viene ammessa sulla scena operistica. I due personaggi omosessuali più noti dell’opera del nostro secolo, la contessa Geschwitz nella Lulu di Berg (rimasta incompiuta alla morte del compositore nel 1935) e Aschenbach in Death in Venice di Britten (1973) hanno in comune un tratto sintomatico dell’apparato discorsivo di cui si è servita la cultura occidentale di questo secolo per parlare dell’omosessualità: entrambi sono malati di colera. La metafora dell’omosessualità espressa dal colera è legata all’immagine della malattia, un’infezione dovuta a scarsa igiene personale, all’inquinamento dell’acqua e a pratiche sessuali “immorali”: è significativo che in Lulu la protagonista passi ad Alwa la sifilide, malattia “eterosessuale”, mentre con la contessa Geschwitz condivida il colera.[100]

La malattia come simbolo e quasi prova tangibile della “depravazione” costituisce un tratto caratteristico, anzi, il tratto caratterizzante dei personaggi omosessuali, che conquistano il diritto ad assurgere al palcoscenico lirico solo al prezzo di venir presentati come “altri”, e di “morire di omosessualità”.[101] Ci sono però differenze significative tra Aschenbach e la contessa Geschwitz. Mentre la rappresentazione dell’omosessualità in Death in Venice ha dato adito ad interpretazioni diverse e spesso opposte, di volta in volta filosofiche, politiche e culturali, non pare che l’opera lasci spazio ad una visione positiva della sessualità di Aschenbach.[102] La contessa Geschwitz, al contrario, ha suscitato la simpatia sia degli spettatori sia dei critici; non, si badi, una simpatia tinta di compassione e pietà, ma un sentimento prossimo all’identificazione, e non solo da parte degli omosessuali. In un saggio recente che a nostro parere costituisce un ottimo esempio delle virtù dell’ermeneutica dialogica cui abbiamo accennato in apertura, Morris discute la recezione del personaggio della contessa lesbica, i (pochi) documenti su Berg e l’omosessualità, e il linguaggio musicale carico di nostalgie tonali con cui il compositore avvolge Geschwitz soprattutto nel momento della morte (cui ella va incontro per salvare Lulu), contrappuntandovi sì le proprie reazioni emozionali di musicologo gay, ma senza che queste diventino mai fine a sé stesse.[103]

L’opera del Novecento presenta altri personaggi apertamente omosessuali, anche se il gruppo per la verità non è molto numeroso. Un caso abbastanza unico, anche perché prodotto in un contesto operistico conservatore come quello statunitense, è stata la decisione da parte della Houston Grand Opera, la San Francisco Opera e la New York City Opera di commissionare al compositore Stewart Wallace e al librettista Michael Korie l’opera Harvey Milk (“prima” a Houston nel 1995), che narra la vita e la morte di un attivista e uomo politico gay di San Francisco assassinato nel 1978. Più significativo è il trattamento dell’omosessu­alità nel recentissimo lavoro di Jonathan Dove (compositore) e April de Angelis (librettista), Flight, un’opera in tre atti commissionata dalla Glyndebourne Festival Opera e presentata nel 1999 con la regìa di Richard Jones, in cui una scena di seduzione tra due uomini è rappresentata con assoluta naturalezza e nonchalance, come potrebbe esserlo una seduzione tra un uomo e una donna (e con nonchalance, anzi con sincero entusiasmo, è stata accolta dal pubblico non certo “alternativo” di Glyndebourne).

L’opera del Novecento non contempla solo casi di omosessualità esplicita, ma ovviamente la presenta anche e soprattutto attraverso un caleidoscopio di immagini e metafore, in questo continuando la tradizione dei secoli precedenti. La produzione teatrale di Britten è stata di recente indagata in questo senso con esiti convincenti, soprattutto riguardo a Peter Grimes, Albert Herring, Billy Budd, The Turn of the Screw e Owen Wingrave.[104] Wood ha interpretato le proteiformi codificazioni del lesbismo nelle opere della compositrice inglese Ethel Smyth, da Fantasio (1892-94) a Fête galante (1923).[105] Oltre a ciò un processo di “decodificazione” che prenda le mosse dal vissuto del compositore non è stato altrimenti tentato, e rimane un’eccezione Król Roger (Re Ruggero, 1926) di Szymanowski.[106]

Conoscere o meno l’omosessualità di un compositore apre la porta ad una serie di quesiti spinosissimi. La conoscenza dell’orientamento sessuale dell’autore è la premessa necessaria per allertare il critico queer circa la possibile presenza di una rappresentazione metaforizzata dell’omosessualità? Oppure si tratta solo di una tra le possibili sollecitazioni, in sé non più importante dell’approccio queer del critico (che, ribadiamolo ancora una volta, non necessariamente indica l’orientamento sessuale di quest’ultimo)? Quale rapporto s’instaura tra biografia ed interpretazione? È possibile servirsi della biografia per nutrire l’interpretazione?

Da un lato ci pare interessante notare come il Novecento offra molti casi di opere di compositori omosessuali, o comunque dalla sessualità controversa, che si prestano a letture queer: oltre ai titoli già ricordati, potremmo nominare La chartreuse de Parme di Henri Sauguet (1939), Les dialogues des Carmélites di Francis Poulenc (1957), Martin’s Lie (1964) e numerosi altri lavori di Giancarlo Menotti, Die Bassariden di Hans Werner Henze (1966), King Priam di Michael Tippett (1962; il suo The Knot Garden, 1970, presenta due personaggi apertamente omosessuali), Lohengrin di Salvatore Sciarrino (1983), The Ghosts of Versailles di John Corigliano (1991).[107] Sembra poi difficile resistere alla tentazione di vedere nella rappresentazione ambigua di Junior, l’omosessuale tormentato di A Quiet Place di Leonard Bernstein (1983), l’opaco autoritratto di un compositore che con la propria sessualità non è mai venuto a patti. D’altro canto il caso di Sylvano Bussotti, che della propria omosessualità non ha davvero mai fatto mistero, ci mette davanti ad opere in cui l’eros, in tutte le sue proteiformi manifestazioni, è esibito con tanta esplicitezza da precludere una lettura in chiave omosessuale che non voglia rischiare di essere riduttiva.[108] Un discorso simile si potrebbe fare per Le grand macabre di Ligeti (1974-77), che mette in scena una scena di sesso sadomasochistico tra marito e moglie in cui lui indossa biancheria intima femminile. Senonché Ligeti non è omosessuale. Occorre dedurne che le strategie interpretative e le conclusioni di un approccio queer alla bussottiana Passion selon Sade e al Grand macabre dovrebbero essere diverse? Ripensando, per esempio, alle grandi amicizie ottocentesche, vorremo rispondere per la negativa. La rappresentazione operistica della sessualità in generale, e dell’omosessualità in particolare, va indagata in un contesto che non può limitarsi alla biografia del compositore (o del librettista), per quanto importante essa sia. Smith, nell’interpretare la Turandot pucciniana come «mostro lesbico», riesce a coinvolgere la Sfinge e Atalanta, Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero, Il mercante di Venezia di Shakespeare e la Salome di Strauss, oltre che Gozzi Adami Simoni Puccini.[109] Un approccio queer all’opera non può che trarre vantaggio dall’intersezione dei contesti potenzialmente infiniti in cui ogni opera si colloca. Lo storico ed il critico hanno il compito di mettere in gioco questi contesti, incluso quello della propria sessualità, in modo che l’interpretazione del testo ne risulti arricchita.

 

ascolto dunque sono: identificazione dell’opera queen

 

Con l’ultimo decennio di questo secolo, a partire dal caso emblematico di Koestenbaum, si assiste a una forte presa di coscienza del pubblico gay che va all’opera. Il binomio gay/opera è diventato a tal punto scontato da non aver nemmeno bisogno di spiegazioni. Nel recente musical di Paul Rudnick, Jeffrey (1995), donde un film di discreto successo, il protagonista, un giovane gay dai facili e continui rapporti occasionali, scusandosi col pubblico afferma: «È falso dire che i gay sono ossessionati dal sesso. Tutti gli esseri umani sono ossessionati dal sesso. I gay sono ossessionati dalla lirica». Chi abbia visto un film di grande successo come Philadelphia di Jonathan Demme (1993) non avrà certo dimenticato l’iniziazione all’opera che il protagonista gay propone all’amico eterosessuale: quasi che i gay possedessero spontaneamente strumenti per godere l’opera che gli “altri” devono acquisire con lo studio.

Le radici del fenomeno risalgono assai più addietro che a simili recenti e clamorose manifestazioni hollywoodiane. In Italia il movimento gay degli anni ’70 propose uno spettacolo teatrale di successo, La traviata norma, che usava la citazione operistica come strumento di complicità col pubblico gay.[110] Ma fin dal dopoguerra l’omosessuale nostrano, magari eccentrico, che ad ogni nuovo allestimento usava attendere ore in fila per assicurarsi il biglietto della “prima” (e spesso delle repliche) è figura socialmente riconosciuta. Nel 1959 Alberto Arbasino pubblicava L’anonimo lombardo – una sorta di metaromanzo e insieme di autobiografia letteraria – dove il protagonista, omosessuale, meditava fra l’altro sulla propria passione per l’opera (senza la determinazione che sarà, più di quarant’anni dopo, di Koestenbaum, ma con lo stesso spirito antiaccademico e la stessa piena assunzione di responsabilità). L’anonimo è di per sé rappresentazione di un modo di sentire e, nello specifico, identificazione di una tipologia dell’appassionato d’opera che, nata fra i coetanei del men che trentenne Arbasino,[111] prende piede sulla base di un’apparente predisposizione italica – bendisposta sia al canto sia all’omosessualità – che sembra quasi incisa nel DNA nazionale:

 

Poniamo, un ragazzo qualunque … va in giro per divertirsi, e per essere gentile gli capita di accompagnare all’Arena di Verona qualche americano ... se questo ragazzo è appena un po’ italiano – e se è propenso a far marchette, è probabile che abbia anche le altre caratteristiche nazionali, i colori accesi, le scarpe a punta, e, appunto, la passione per il canto – per disancorato e privo di tradizioni che sia, non può non restar toccato da quel lirismo struggente … ’sto ragazzo deve per forza sentir sciogliersi un nodo, e qualcosa che si risveglia dentro, come riconoscendo un altro se stesso.[112]

 

Che tale figura si sia evoluta da color locale ad oggetto d’indagine musicologica lo si deve però al dibattito americano di questi ultimi anni.

L’opera queen, letteralmente “regina dell’opera” – dove ‘regina’ assume il valore gergale di ‘gay effeminato’ –, se in origine poteva essere l’appassionato, forse colto, sicuramente appariscente, che non mancava di sporgersi dal palco per gridare brava!, ora è più un luogo del sentire, tale per cui un intellettuale in doppio petto come Koestenbaum può definirsi opera queen solo perché visceralmente, fisicamente attratto dall’opera, addirittura a prescindere dalla sua omosessualità. In Italia siamo ben lontani dal rilevare simile mutazione, e il corrispettivo di opera queen, ‘melochecca’, è ancora un uso gergale vagamente offensivo. La differenza è etimologica: melochecca è variante gay di melomane, mentre opera queen è una delle tante possibili queen appartenenti alla comunità gay. In quest’ultimo caso l’attivista omosessuale si mette la cravatta e va a teatro, mentre in Italia il loggionista posa furtivamente una mano sulla coscia del vicino.[113]

La rivendicazione da parte del pubblico gay americano di una specifica sensibilità, capace non solo di cogliere in modo personale il teatro d’opera ma nel contempo di condizionarne gli indirizzi e le scelte culturali, è forse il fenomeno più significativo della recezione musicale attuale di cui la musicologia si sia accorta. Il solito Koestenbaum (con la quasi postfazione del 1998), ma anche i contributi di Kopelson e Morris[114] e altri non accademici,[115] nonché un testo teatrale di straordinario successo come The Lisbon Traviata (1986),[116] hanno saputo cogliere nel teatro d’opera manifestazioni che costituiscono, l’una accanto all’altra, l’immaginario possibile di una sensibilità omosessuale, e in questo senso la giustificano. In altre parole, se lo spettatore (ma il discorso vale per il compositore, il librettista, l’impresario, il cantante, lo studioso) riconosce come omosessuali elementi altrimenti trascurati dall’approccio eterosessuale – vuoi l’ambiguità di un ruolo en travesti, vuoi l’identificazione nella primadonna, vuoi la percezione del teatro d’opera come luogo di deroga o esenzione dalla norma[117] –, tali elementi tutti insieme legittimano essi stessi una sensibilità che possiamo anche chiamare ‘omosessuale’ ma che, come valore collettivo, appartiene a tutti. A questo punto chiunque, a prescindere dai propri gusti, può lasciarsi sedurre dalle ambiguità di ruolo, partecipare ai turbamenti del soprano, insomma ammettere di “appartenere” al mondo dell’opera.[118]

Che l’approccio musicologico all’idea di opera queen sia più un’astrazione teorica che un’indagine sociologica del fenomeno è ben sottolineato da Kopelson.[119]Ma in questo teorizzare non v’è nulla di sistematico: all’organizzazione è preferita la giustapposizione, alla dimostrazione l’evidenza. Va in questa direzione l’elenco ragionato di queer moments operistici proposti da Koestenbaum – fra i più suggestivi il «Sempre libera» di Violetta che in un esuberante trionfo di trilli mostra la disinibita sessualità di una donna in fondo sola con sé stessa, quasi metafora dello stereotipo gay (guarda caso: gaio) civettuolo e sorridente ma profondamente malinconico – che un po’ rilegge a proprio uso scene d’opera, un po’ usa l’opera per capire sé stesso[120] e un po’, viceversa, svela sottotesti omosessuali inconsapevoli.[121] In ogni caso tale elenco obbliga ad ammettere la possibilità dell’ascoltare con un orecchio gay. Non si tratta di una manipolazione scaturita dalla pretesa legittimità di qualsiasi soggettivismo, ma da un’operazione di arricchimento che offre all’opera un valore aggiunto. Questo tipo d’interpretazione, per quanto personale, rimanda comunque ad una percezione in cui si riconosce potenzialmente un gruppo esteso di individui che contribuisce a delineare la storia dell’opera stessa; in questo senso, che la gobba di Rigoletto possa diventare appiglio per la diversità omosessuale è, quantomeno da un punto di vista della recezione, parte integrante dell’opera stessa.

Ma l’elemento centrale, in certo qual modo il punto di partenza imprescindibile d’ogni approccio sociologico al rapporto fra opera e pubblico gay è la dipendenza quasi maniacale che lega l’opera queen alla protagonista femminile del repertorio lirico soprattutto ottocentesco. Donna Elvira, Lucia, Norma, Violetta, Tosca, Mimì, Butterfly diventano archetipo di un modello sentimentale da cui pochi appassionati d’opera gay si sentono estranei. Il tentativo di comprendere in quali termini la sensibilità gay contemporanea possa ritrovarsi in un immaginario sentimentale ottocentesco può svelare meccanismi drammaturgici romantici e borghesi e permette di rileggere l’uso e l’abuso che delle emozioni fa questo repertorio.

Morris ammette che la partecipazione dell’opera queen agli struggimenti di Lucia o Violetta non si trasforma in estrapolazione del personaggio dal contesto drammatico, come certi fanatismi per mitiche primedonne potrebbero far pensare. È invece proprio il contesto melodrammatico, e la reazione ad esso, che giustifica il fascino.[122] Tosca che trae forza dal giogo opprimente di una persecuzione sessuale e politica per trasformarsi in omicida è soprattutto vittima di un sistema ostile, ed è proprio tale sistema oppressivo che è riconosciuto come proprio: non molto diverso dall’ambiente di lavoro dove l’opera queen in giacca e cravatta deve far credere di essere e sentire qualcosa che non è e non sente, lusingando Scarpia o il proprio superiore. L’ascoltatore gay, però, non ammazzerà mai il capufficio né si getterà da Castel Sant’Angelo per un amore perduto. Tosca, che «visse d’arte e d’amore», è ciò che l’opera queen non sarà mai, pur convincendosi del contrario. “Tosca / Violetta / Butterfly c’est moi” diventa un modo struggente di autolusingarsi, tanto più necessario per chi vive quotidianamente il biasimo sociale.

In questi termini la costante condizione di abbandono o di perdita che pervade le trame d’opera ottocentesche trova facile predisposizione in chi percepisce il proprio amore comunque svincolato dai “collanti sociali” – la famiglia, il matrimonio, il pubblico riconoscimento, lo status civile – e pertanto privo di punti d’appoggio. La fragilità di questo amore obbliga il medesimo ad essere nel contempo eccessivo, enfatico, totale (per giustificarne l’esistenza) e insieme disperato, ansioso, caduco (perché privo di conferme esterne). La condizione gay, che spontaneamente coglie l’attualità di ciò che nell’opera si suol liquidare come anacronismo, permette di tracciare un parallelo fra lo scollamento contemporaneo (l’opera queen che si riconosce nell’immaginario melodrammatico) e quello ottocentesco. I contemporanei di Verdi avranno potuto riconoscere in Violetta qualcosa di non molto diverso, quella parte di sé negata dalla società borghese ottocentesca. L’enfasi emotiva di Violetta giustifica il sentimento che esiste a prescindere da tutto, dalla famiglia dalla società dalla chiesa, e trasforma quel sentimento in qualcosa di vivo, reale, fisico, capace, in certo qual modo, d’insegnare agli Italiani che quel sentimento esiste, che è lì, a disposizione di chiunque si sappia guardar dentro, sappia essere sé stesso a prescindere dai condizionamenti esterni. Un modo, se si vuole, per educare all’amore.

L’altro elemento che caratterizza l’opera queen è la fascinazione quasi feticistica per il canto lirico. L’argomento, ampiamente trattato da Koestenbaum, è stato poi ripreso dai recensori, particolarmente da Robinson.[123] Non v’è dubbio che lo sforzo fisico del cantante d’opera sia avvicinabile a quello atletico o sessuale, ma forse il paragone tra la fisicità del vibrato e l’emozione sessuale, o l’invocazione del potenziale erogeno della bocca, sono solo proiezioni a posteriori.[124] La sessualizzazione del canto lirico sarebbe trascurabile, se non venisse messo in gioco un altro ben più discriminante elemento: quello che ormai sempre più spesso si definisce la potenzialità “penetrativa” della voce.

L’idea della voce come ‘fallo’, derivata da Lacan solo alla lontana, pervade un po’ tutta la queer theory che si occupa di lirica. La posizione di Lacan è meno sessualizzante di quanto vorrebbero alcuni commentatori americani (semplificando: il ‘fallo’ per lo psicanalista francese è il potere che si crede sia nell’altro di ricostituire un’unità originaria che il soggetto in realtà non ha mai posseduto);[125] eppure non si può negare che la scelta terminologica ammetta, con Freud, la centralità della sessualità nel costruire la soggettività. Poizat elabora con ingegno le tesi di Lacan dal punto di vista della voce operistica, ma non per questo è interessato a confrontarsi con l’omosessualità.[126]

Koestenbaum, celebrando la corporeità della voce e la sua azione fisicamente penetrativa, si allontana dalle teorie psicanalitiche del linguaggio per dichiarare un proprio modo di sentire, e in certo qual modo esplicitare una condizione di “passività” dell’ascoltatore d’opera, quali che siano le sue predilezioni sessuali. In questo senso la voce fallica di Koestenbaum si può riallacciare alla concezione della “voce come sperma” di Angelini Bontempi, e il feticismo sessualizzato con cui viene descritto l’atto del cantare (cap. V) rientra nel mito della vocalità, mito esasperato da una tipologia riconoscibilissima di spettatore d’opera, interessato esclusivamente al canto, per cui solo esiste il canto e tutt’al più l’attore di tale emissione (uno spettatore quindi non necessariamente omosessuale).[127] E l’idea di tale vocalità, ripresa da Robinson,[128] sembra elemento condivisibile soprattutto da un pubblico gay, in quanto quel pubblico si dichiara implicitamente disposto a essere “penetrato”.

La fascinazione del canto, fascinazione erotica e dunque equiparabile a un orgasmo, riesce a trasformare il cantante (o più probabilmente la cantante, che contemporaneamente incarna anche il ruolo di un’eroina abbandonata) in oggetto di venerazione da parte dell’opera queen. Colei che produce quel canto – Koestenbaum parlerebbe di erezione – diventa l’amante perfetta, mistica, irraggiungibile, divina. La Callas fu, ed è ancor oggi per la grande maggioranza del pubblico gay, personificazione emblematica di tale amore-venerazione. Nella citata Traviata di Lisbona, Terrence McNally, raccontando la fissazione maniacale di Mandy per una celebre registrazione dal vivo dell’opera con la Callas (Lisbona, 27 marzo 1958), erge ad emblema un comportamento tipico di moltissime opera queen. Per Mandy, gay di mezz’età, solo, immalinconito da un amore consumato, il recupero di quell’incisione è la compensazione indispensabile, addirittura esistenziale, di un amore che non c’è: nel caso specifico che non c’è più, ma che potrebbe non esserci stato mai – angoscia dell’immaginario di molti gay. La cantante si trasforma in amante, perché quella è l’unica relazione possibile (anche in senso fisico), l’unica che la società concede. Quella cantante, ma eventualmente anche quel cantante, su cui viene proietatta una così forte aspettativa, diventa la compensazione di ogni amore finito o mai iniziato, di ogni delusione sentimentale trasformata in fallimento.

Potremmo chiederci quanta incidenza abbia il pubblico omosessuale sul successo del teatro d’opera. È innegabile che tutto il sistema odierno che ruota intorno all’opera tragga nutrimento da quella che cinicamente vien chiamata un’“ampia fetta di mercato”, e che condiziona a vari livelli le scelte dei nostri Enti Lirici. Al di qua del palcoscenico abbiamo quindi un pubblico gay, apparentemente competente (e che pertanto si assume l’incarico di disquisire sul gusto), non scientificamente agguerrito ma sufficientemente aggressivo da poter insegnare all’ascoltatore occasionale cosa sia giusto o sbagliato nell’opera. La scena teatrale, specificamente operistica, è popolata da cantanti, uomini e donne, i quali, per motivi che qui non è possibile investigare, sono in percentuale significativa omosessuali. Dietro le quinte operano direttori artistici, agenti, scenografi, sovrintendenti, direttori, registi che, se non sono essi stessi gay, sono comunque circondati da segretari, aiutanti, addetti stampa, portaborse e quant’altro che lo sono.[129] Attorno si dispongono critici musicali e redazioni di riviste dedicate all’opera a forte incidenza gay. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si tratta affatto di un sistema coeso e organizzato: sono più frequenti le rivalità e le contraddizioni che non le complicità pseudomassoniche, eppure non si può negare che certi aspetti della produzione operistica odierna siano tenuti in piedi da tale sistema. Un caso emblematico (per evitare di trattare episodi specifici) è il disinteresse per le competenze attoriali dei cantanti, che probabilmente si ricollega proprio al feticismo vocale raccontato da Koestenbaum.

Non si fraintenda: il pubblico gay ha più meriti che torti nei confronti dell’opera, e d’altra parte l’opera queen, anche quella nostrana, è oggi assai diversificata non solo culturalmente ma anche generazionalmente. Diventa sempre più consapevole un atteggiamento critico e autocritico che lascia ben sperare per il futuro. Un indizio significativo: proprio all’interno della comunità gay d’Oltreoceano si è rapidamente diffusa una rivista, intitolata «Parterre Box: The Queer Opera Zine», esplicitamente rivolta al lettore gay appassionato d’opera;[130] il taglio apparentemente scanzonato in realtà nasconde una posizione critica radicale (già espressa nel riconoscimento esplicito di un pubblico gay che va all’opera) che svela senza complimenti, magari con una battuta, finzioni e meschinerie del mondo della lirica, delle agenzie di canto, del mercato discografico (assenti ovviamente i coercitivi inserti pubblicitari che invadono le altre riviste d’opera). Un esempio più significativo di altri: sul n. 31 (marzo-aprile 1998) apparve un’intervista a David Daniels, il controtenore che, con una voce quasi indistinguibile da quella d’una donna, ha fatto cambiare idea a molti che nel registro di falsetto detestavano l’assenza di passionalità. L’esibita virilità di Daniels ha improvvisamente fatto scoprire a molte opera queen (e non solo) che la carica erotica maschile può appartenere anche ad una voce di mezzosprano. (Daniels fra l’altro aveva già coraggiosamente dichiarato la propria omosessualità in un’intervista apparsa sul «New Yorker» del 10 novembre 1997.) James Jorden, l’intervistatore di «Parterre Box», smitizza con una frase tutta la costruzione da divo proposta dai media americani: «Ho detto a un paio di persone che ti avrei intervistato, e entrambi mi hanno chiesto un ricciolo dei tuoi peli del petto». Daniels è probabilmente il miglior controtenore del momento, ma è indubbio che il sistema non si accontenti affatto delle qualità professionali e punti gran parte della forza seduttiva sulla personalità e sulla prestanza fisica.[131]

Forse a qualche lettore questa rivisitazione del mercato dell’opera parrà, se non del tutto fantasiosa, un po’ esasperata. Non abbiamo difficoltà a credere che molti, pur disposti a rilevare qua e là qualche manifestazione gay, resistano all’idea di un “sistema” così diffuso e ramificato. La verità, al solito, sta nel mezzo; la consistente presenza gay è reale, ma è anche vero che l’omosessualità non è uno “stato nello stato”, e tende di preferenza ad integrarsi. Si potrebbe osservare che tale abilità mimetica, in fondo equivoca – dopo trent’anni di gay pride, ci si vergogna ancora della propria identità e spesso ci si autocensura –, abbia assicurato la sua sopravvivenza. Certo è che l’abitudine ad accomodarsi negli spazi della cultura lasciati liberi, di occultarsi fra stratagemmi e compromessi, di assumere forme di volta in volta mutevoli a seconda delle circostanze, ha reso in gran parte impossibile distinguere una cultura espressamente gay. Anzi, il desiderio omosessuale è sempre stato così tanto proprio della cultura tout court che pretendere di volerlo trascurare è il primo passo per privarsi degli strumenti necessari a (ri)conoscere le manifestazioni di tale cultura: la nostra cultura, quella di tutti. La verità è che il desiderio, sia etero sia omosessuale, ha sempre avuto più o meno bisogno degli alibi morali per potersi manifestare. Forse il moderno occhio queer – nel nostro caso anche l’orecchio – potrebbe contribuire proprio a questo: a svelare artifici e costruzioni, a riconoscere finzioni (non solo le proprie), in una parola a guardare – e sentire – oltre, oltre tutto ciò che è dato per certo, consolidato, acquisito.

 

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Ringraziamo per l’incoraggiamento e i suggerimenti Marco Beghelli, Lorenzo Bianconi, Suzanne G. Cusick, Giovanni Dall’Orto, Maria G. Di Rienzo, Wayne Dynes, Marco Emanuele, Roger Parker e Judith Peraino. Un grazie particolare a Giuseppina La Face Bianconi, che con gentile fermezza ha spazzato via i nostri dubbi e le nostre esitazioni e ci ha definitivamente convinti ad iniziare questo lavoro.


[1] In una ricognizione come la nostra, il privato potrebbe apparire superfluo; ma già Eve Kosofsky Segdwick, storica della letteratura inglese ed una delle voci più interessanti della teoria queer, ricordava che «in molti casi significativi ‘queer’ può aver senso solo quando lo si pronuncia in prima persona» (E. K. Sedgwick, Tendencies, Durham, Duke University Press, 1993, p. 9); e in ogni caso preferiamo evitare l’equivoco fra l’essere e l’agire – p. es. dell’ultimo Catechismo, che tollera il primo per condannare il secondo –, che si riproporrebbe se distinguessimo fra l’astrazione teorica (dell’approccio musicologico) e il quotidiano (nostro o di chiunque altri). Aggiungiamo che le riflessioni qui presentate si basano peraltro su interessi specifici e curricula differenziati: Davide Daolmi (daolmi@fastwebnet.it) si è occupato soprattutto di opera barocca, si muove nell’ambito musicologico italiano ed ha conosciuto i queer studies grazie a sollecitazioni ed interessi sviluppati al di fuori dell’università; Emanuele Senici (emanuele.senici@music.ox.ac.uk) è un ottocentista che lavora attualmente in Inghilterra e che ha incontrato i queer studies sui banchi della scuola di dottorato negli Stati Uniti.

[2] «Homosexuality is a way of singing. I can’t be gay, I can only sing it, disperse it. I can’t knock on its door and demand entrance because it is not a place or a fixed location. Instead, it is a million intersections – or it is a dividing line, a membrane, like the throat, that separates the body’s breathing interior from the chaotic external world» (W. Koestenbaum, The Queen’s Throat: Opera, Homosexuality, and the Mystery of Desire, New York, Poseidon, 1993, p. 156). Con l’eccezione di quest’unico arduo passo, tutte le citazioni in lingua straniera sono qui proposte solo in traduzione: c’interessa principalmente coinvolgere il lettore italiano su temi per lui probabilmente nuovi, e l’esigenza dell’intelligibilità, unita alla tirannia dello spazio, ha avuto la meglio sulla completezza.

[3] La bibliografia in questo senso è vastissima; fra le più significative raccolte di saggi, cfr. The Lesbian and Gay Studies Reader, a cura di H. Abelove, M. A. Barale e D. M. Halperin, New York - London, Routledge, 1993, con più di quaranta contributi.

[4] Per una sintesi critica sul rapporto fra musicologia e femminismo, cfr. S. G. Cusick,Gender, Musicology, and Feminism, in Rethinking Music, a cura di N. Cook e M. Everist, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 471-498. Per un esempio recentissimo di interpretazione dell’opera in rapporto alle concezioni occidentali della soggettività, cfr. G. Tomlinson, Metaphysical Song: An Essay on Opera, Princeton, Princeton University Press, 1999.

[5] Fra le più significative ricordiamo quelle di K. Kopelson,«19th-Century Music», XVII, 1993/94, pp. 274-285, poi ampliata come Metropolitan Opera / Suburban Identity, in The Work of Opera: Genre, Nationhood, and Sexual Difference, a cura di R. Dellamora e D. Fischlin, New York, Columbia University Press, 1997, pp. 297-313; H. Hadlock, «Cambridge Opera Journal», V, 1993, pp. 265-275; ChRosen, The Ridiculous & Sublime, «New York Review of Books», 22 aprile 1993, pp. 10-15, e P. Robinson, The Opera Queen: A Voice from the Closet, «Cambridge Opera Journal», VI, 1994, pp. 283-291. Il dibattito omosessuale è tuttora in fermento nelle università nordamericane, con corsi e seminari specifici; da qualche hanno si è inoltre formato all’interno della American Musicological Society un “Gay and Lesbian Study Group”.

[6] Il disagio è stato eretto a strumento di conoscenza in S. G. Cusick,On a Lesbian Relationship with Music: A Serious Effort Not to Think Straight, in Queering the Pitch: The New Gay and Lesbian Musicology, a cura di Ph. Brett, E. Wood e G. C. Thomas, New York - London, Routledge, 1994, pp. 67-83, che sceglie proprio la metafora di una lingua straniera (per Cusick l’italiano) quale modalità espressiva di una diversità, del suo «essere fuori sistema» (p. 67, in italiano), del suo essere americana, musicista, donna, lesbica. Cusick apre il suo articolo con uno stratagemma metalinguistico, dichiarando in italiano – un italiano improbabile, commovente, intriso dei secentismi assorbiti in seguito ai propri studi – il proprio disagio a usare l’inglese, lingua troppo familiare per lei e i suoi lettori, una lingua in cui «dire la parola ‘lesbica’ tra i musicologi è come parlare una lingua straniera» (p. 68, in inglese).

[7] Cfr. The Oxford English Dictionary, 2a ed. in 26 voll., Oxford, Oxford University Press, 1994, ad vocem. È pratica diffusa riferire la pratica omosessuale agli stranieri (non a caso bùggero – da cui ‘buggerone’ – deriva da ‘bulgaro’, e frocio significava in origine ‘francese’, poi ‘straniero’; cfr. G. Dall’Orto Le parole per dirlo. Storia di undici termini relativi all’omosessualità, «Sodoma», III, 1986, pp. 81-95.

[8] Con gender ci si riferisce agli aspetti della sessualità determinati dalla cultura e dalla società. Anche l’Italia – che rende gender con ‘genere’ o con ‘identità sessuale’ – si è recentemente lasciata coinvolgere: cfr. per esempio Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, a cura di S. Piccone Stella e C. Saraceno, Bologna, Il Mulino, 1996.

[9] Il capitolo in questione (già in T. Castle, The Apparitional Lesbian: Female Homosexuality and Modern Culture, New York, Columbia University Press, 1993, pp. 200-238) è ripubblicato in En Travesti: Women, Gender Subversion, Opera, a cura di C. E. Blackmer e P. J. Smith, New York, Columbia University Press, 1995, pp. 20-58, col titolo In Praise of Brigitte Fassbaender: Reflections on Diva-Worship.

[10] «Il sodomita era un recidivo; l’omosessuale ormai è una specie» è l’asserto, ormai eretto a slogan, che identifica il fondamento della queer theory: M. Foucault, Storia della sessualità, I: La volontà di sapere (1976), Milano, Feltrinelli, 1978, p. 43.

[11] Cfr. Encyclopedia of Homosexuality, 2 voll., a cura di W. R. Dynes, New York - London, Garland, 1990, I, p. 555 sgg.

[12] Cfr. D. F. Greenberg, The Construction of Homosexuality, Chicago, University of Chicago Press, 1988, e Forms of Desire: Sexual Orientation and the Social Construction Controversy, a cura di E. Stein, New York - London, Garland, 1990.

[13] Cfr. J. Katz, The Invention of Heterosexuality, New York, Plume, 1995. Molto importante in questo contesto è stata la teorizzazione, dovuta ad Adrienne Rich, del concetto di lesbian continuum, un termine che comprende un ampio spettro di relazioni femminili non necessariamente sessuali, e che ha introdotto una comprensione della sessualità individuale come un punto mobile su una linea continua di possibili identificazioni psicologiche ed emotive e di pratiche corporee: cfr. A. Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence (1980), in The Lesbian and Gay Studies Reader cit., pp. 227-254. La proposta di Rich ha poi alimentato l’imponente teorizzazione filosofica di J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, New York - London, Routledge, 1990, ed Ead., Bodies That Matter: On the Discoursive Limits of ‘Sex’, ivi, 1993.

[14] Per una posizione in questo senso, articolata e ricca di sollecitazioni, cfr. L. Bersani, Homos. Diversi per forza (1995), Milano, Pratiche, 1998.

[15] Conseguenza rivelatrice di quest’abbaglio sono per esempio le traduzioni italiane che tendono a risolvere in senso eterosessuale le ambiguità sessuali. Si pensi al Lied di Goethe musicato da Schubert, Nähe des Geliebten (1815): in italiano il titolo diventa Presenza dell’amata (Lieder, a cura di V. Massarotti Piazza, Milano, Garzanti, 1982, p. 118), che da un lato risolve in modo del tutto parziale il neutro dell’originale tedesco, e nel contempo trascura di osservare che l’oggetto amato è avvicinato all’immagine d’un viandante notturno (figura assai poco femminile). Non c’è bisogno di tirare in ballo il privato omosessuale di Goethe o Schubert per avvalorare che il femminile calza male: è prima di tutto una questione linguistica.

[16] Cfr. A. Poznansky, Tchaikovsky: The Quest for the Inner Man, New York, Schirmer, 1991, e Id., Tchaikovsky’s Last Days: A Documentary Study, Oxford, Oxford University Press, 1996. Il lettore italiano può leggere la prefazione che la scrittrice russa Nina Berberova aggiunse alla traduzione francese (1987) d’una sua biografia del compositore (pubblicata per la prima volta a Berlino nel 1935), in cui ricorda come l’omosessualità fosse pratica diffusa e tollerata nell’aristocrazia russa di fine secolo: cfr. N. Berberova, Il ragazzo di vetro: Cajkovskij, Parma, Guanda, 1993. Sui rapporti fra sessualità e composizione in Cajkovskij val forse la pena segnalare T. L. Jackson, Aspects of Sexuality and Structure in the Later Symphonies of Tchaikovksy, «Music Analysis», XIV, March 1995, pp. 1-26.

[17] R. Taruskin, Pathetic Symphonist, «The New Republic», 6 febbraio 1995, pp. 26-40: 34.

[18] Si tratta dell’allestimento della compagnia Music Theater London, presentata al Lyric Theatre di Hammersmith nel giugno del 1999.

[19] M. Laycock, An Operatic Outing, «The Pink Paper», 20 maggio 1999, p. 16.

[20] «Poiché l’omosessualità non ha goduto di un discorso su sé stessa pubblicamente sancito, il “testo omosessuale” si è dovuto occultare fra le pieghe di un discorso dominante e nascondere con abilità, in modo da prevenire qualsiasi insinuazione circa la sua presenza e nel contempo rivelarsi in trasparenza. Fino a ieri, i lavori che esibivano passioni omosessuali hanno messo in atto un’elaborata strategia di messaggi riconoscibili e codificati, nascosti e palesi» (M. Roth, Homosexual Expression and Homophobic Censorship: The Situation of the Text, in Camp Grounds: Style and Homosexuality, a cura di D. Bergman, Amherst, University of Massachusetts Press, 1993, pp. 268-281: 268).

[21] G. Contini, Filologia, nel suo Breviario di ecdotica, 2a ed., Torino, Einaudi, 1990, pp. 3-66: 5.

[22] Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo (1960), Milano, Bompiani, 1983; J. Habermas, Conoscenza e interesse (1968), Bari, Laterza, 1970; P. Ricœur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud (1965), Milano, Il Saggiatore, 1967.

[23] D. LaCapra, History, Language, and Reading: Waiting for Crillon, «American Historical Review», C, 1995, pp. 799-828: 825, 826 sg.

[24] R. Taruskin, Defining Russia Musically: Historical and Hermeneutical Essays, Princeton, Princeton University Press, 1997, p. xxi.

[25] E. K. Sedgwick, Paranoid Reading and Reparative Reading; Or, You’re So Paranoid, You Probably Think This Introduction is About You, in Novel Gazing: Queer Readings in Fiction, a cura di E. K. Sedgwick, Durham, Duke University Press, 1997, pp. 1-37: 30.

[26] Koestenbaum, The Queen’s Throat cit., p. 179.

[27] Altri preferiscono interpretazioni diverse. Un teorico notoriamente gay come Roland Barthes leggeva il mito d’Orfeo quale «eponimo della filosofia», perché «un discorso che si guarda alle spalle è per ciò stesso un discorso teoretico» (R. Barthes, La grana della voce. Interviste 1962-1980, Torino, Einaudi, 1986; cit. in B. Engh, Loving It: Music and Criticism in Roland Barthes, in Musicology and Difference: Gender and Sexuality in Music Scholarship, a cura di R. Solie, Berkeley - Los Angeles, University of California Press, 1993, pp. 66-79: 69).

[28] «Rana, tu che sai nuotare, aiutami ad attraversare il fiume» – «No, scorpione, altrimenti mi pungerai» – «Non posso pungerti, se tu morissi morirei affogato anch’io». La rana si prende sulle spalle lo scorpione e si butta in acqua; a metà del fiume lo scorpione la punge – «Scorpione, perché mi uccidi?» – «Mi dispiace, rana, ma è la mia natura». Questa vecchia storiella viene raccontata in un recente film di Oliver Stone, Natural Born Killer (1994), chiave di lettura dell’intera sanguinaria vicenda, e in certo qual modo pendant di un altro contestatissimo film, Cruising (1980) di William Friedkin (cfr. V. Russo, Lo schermo velato. L’omosessualità nel cinema [1981], Genova, Costa & Nolan, 1984, pp. 294-296), che attua un parallelo fra l’istinto omicida e quello omosessuale, entrambi giudicati tanto antisociali quanto intrinsecamente propri alla natura umana.

[29] È sintomatico che il figlio di Bardi, implicitamente contrapponendosi alla “dissolutezza” delle successive accademie di Corsi, voglia precisare nel 1634 che i consessi del padre si svolgevano «stando lontano dal vizio»: cit. in N. Pirrotta, Temperamenti e tendenze nella Camerata Fiorentina (1954), nelle sue Scelte poetiche di musicisti, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 173-195.

[30] Cfr. D. Daolmi, «Arte sol da puttane e da bardasse». Prostituzione maschile e “nobile vizio” nella cultura musicale della Firenze barocca, «Civiltà musicale», VI, nn. 14-15, 1992, pp. 103-131: 107-110.

[31] Già Dürer, nell’incisione intitolata Morte d’Orfeo (1494), riporta nel cartiglio in alto la scritta «Orpheus Der Erst Puserant», letteralmente «il primo buggerone, il primo sodomita»: cfr. E. Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), 2a ed., Milano, Feltrinelli, 1979; sulla cultura classica, Orfeo e l’omosessualità, cfr. W. R. Dynes, Orpheus Without Eurydice, «Gai Saber», I , 1978, pp. 267-273. Nello stesso 1494 fu pubblicata la Favola d’Orfeo del Poliziano, che ad Orfeo convertito a sodomitici intenti mette in bocca quest’ottava: «Fanne [= ne fa] di questo Giove intera fede, | che dal dolce amoroso nodo avinto | si gode in cielo il suo bel Ganimede; | e Phoebo in terra si godea Hiacinto. | A questo sancto amore Hercole cede | che vinse i monstri e dal bel Hyla è vinto: | conforto e’ maritati a·ffar divorzio, | e ciascun fugga il feminil consorzio».

[32] Cfr. B. Sergent, L’omosessualità nella mitologia greca (1984), Bari, Laterza, 1986, p. 101.

[33] S. McClary, La costruzione dell’identità sessuale nelle opere drammatiche di Monteverdi (1991), «Musica/Realtà», XIV, n. 41, 1993, pp. 121-144: 134 sg., sembra voler trascurare le circostanze storiche quando pretende di legare la (presunta) scarsa fortuna di pubblico della prima rappresentazione all’ambiguità dei valori espressi dal protagonista, quasi «prototipo dell’eroe femminilizzato».

[34] Sulla recezione del mito nell’Ottocento, cfr. D. Kosinski, Orpheus in Nineteenth-Century Symbolism, Ann Arbor, UMI Research Press, 1989.

[35] Koestenbaum, The Queen’s Throat cit., p. 180.

[36] Cfr. Daolmi, «Arte sol da puttane e da bardasse» cit.

[37] Cfr. L. Bianconi - Th. Walker, Dalla “Finta pazza” alla “Veremonda”: storie di Febiarmonici, «Rivista italiana di Musicologia», X, 1975, pp. 379-454: 418-424. Più in generale sull’accademia, cfr. M. Miato, L’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredano, 1630-1661, Firenze, L. S. Olschki, 1998.

[38] Cfr. l’introduzione ad A. Rocco, L’Alcibiade fanciullo a scola, a cura di L. Coci, Roma, Salerno, 1988, pp. 7-34 e 95-98.

[39] Si leggano al proposito G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, 2a ed., Firenze, La Nuova Italia, 1983; S. Bertelli, Ribelli, libertini e ortodossi nella storiografia barocca, ivi, 1973, pp. 193-218, e soprattutto G. Martini, Il «vitio nefando» nella Venezia del Seicento. Aspetti sociali e repressione di giustizia, Roma, Juvence, 1988, pp. 104-111. Per le strette relazioni fra ambienti libertini e omosessuali in questi anni, cfr. G. Dall’Orto, La natura è madre dolcissima. L’accettazione dell’omosessualità nel libertinismo italiano dei secoli XVI e XVII, «Sodoma», V, 1993, pp. 27-41, e l’aggiornamento bibliografico ivi segnalato. Il recentissimo articolo di W. Heller, Tacitus Incognitus: Opera As History in “L’incoronazione di Poppea”, «Journal of the American Musicological Society», LII, 1999, pp. 39-96, è il primo importante contributo musicologico che non ignora (o non finge d’ignorare) il potenziale eversivo delle teorie sorte in seno all’Accademia degli Incogniti.

[40] Un significativo riferimento in P. Fabbri, Il secolo cantante. Per una storia del libretto d’opera nel Seicento, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 109.

[41] S’osservi che in questa scena (II, vi) il nome di Poppea non è mai pronunciato, e semmai il motivo di tanto compiacimento è la morte di Seneca («Or che Seneca è morto, | cantiam, cantiam, Lucano»). Di più: la musica – una sorta di kamasutra sonoro – sembra dettagliare addirittura le “posizioni” sessuali assunte, lasciando a Lucano il ritmo incalzante («m’inebria il cor») e a Nerone poco più d’un gemito, un rantolo reiterato («Ahi destin!»); che tutto si plachi alle parole «nettare divino» pronunciate su un’insistita cadenza dilatata allo spasimo fuga ogn’altro dubbio in merito (di grande efficacia la moderna interpretazione di René Jacobs nel CD Harmonia Mundi France, 1990).

[42] Non stupisce che proprio il citato Antonio Rocco sia l’autore del trattatello Amore è un puro interesse; nel suo Della bruttezza, a cura di W. Lupi, Pisa, ETS, 1990.

[43] Diversa l’ampia interpretazione di W. Heller, The Queen As King: Refashioning Semiramide for Seicento Venice, «Cambridge Opera Journal», V, 1993, pp. 93-114, che peraltro ammette la centralità anche strutturale del duetto con Lucano nell’impianto drammatico della Poppea; cfr. inoltre T. Carter, Re-reading “Poppea”: Some Thoughts on Music and Meaning in Monteverdi’s Last Opera, «Journal of the Royal Musical Association», CXXII, 1997, pp. 173-204.

[44] Cfr. E. Rosand, Barbara Strozzi, «virtuosissima cantatrice»: The Composer’s Voice, «Journal of the American Musicological Society», XXXI, 1978, pp. 241-281: 245.

[45] Cfr. «Early Music», XXVII, n. 3, 1999, numero monografico intitolato Laments, con saggi di L. Stras, L. Holford-Strevens, T. Carter, A. MacNeil, J. Brooks e S. G. Cusick.

[46] Già A. De Rinaldis, Marcantonio Cesti musicista del XVIIsecolo da lettere inedite di Salvator Rosa, «Urbe», III, 1939, pp. 20-25, sulla scorta di alcune lettere di Salvator Rosa, faceva riferimento all’omosessualità di Cesti.

[47] Cfr. G. C. Thomas, “Was Georg Frideric Handel Gay?”: On Closet Questions and Cultural Politics, in Queering the Pitch cit., pp. 155-203.

[48] C. Hogwood, Georg Friedrich Händel (1984), Pordenone, Studio Tesi, 1991, p. 71, ironizza sulla disinformazione perpetrata.

[49] Un ampio florilegio in Les chansons libertines de Claude de Chouvigny, baron de Blot L’Église, 1605-1655, a cura di F. Lachèvre, Genève, Slatkine, 1968.

[50] Il caso più clamoroso è ovviamente quello di Atto Melani, sul quale cfr. R. A. Freitas, “Un Atto d’ingegno”: A Castrato in the Seventeenth Century, Ph.D. diss., Yale University, 1998.

[51] I testi di riferimento rimangono ancor oggi H. Prunières, Lulli. La vita e le opere (1909), Milano, Bocca, 1950, e più nello specifico Id., La vie illustre et libertine de Jean-Baptiste Lully, Paris, Plon, 1929, le cui notizie sono poi riprese in R. Amar, Un sodomite de génie: Jean-Baptiste Lully (1632-1687), «Arcadie», nn. 172-174, aprile-giugno 1968, pp. 163-170, 229-235 e 289-297, e M. Lever, Les buchers de Sodome. Histoire des infames, Paris, Fayard, 1985.

[52] Spunti interessanti in R. M. Isherwood, La musica al servizio del re. Francia: XVII secolo (1973), Bologna, Il Mulino, 1988; in particolare, cfr. la citazione di Nicolas Goulas (p. 145) e altre considerazioni a p. 223 sgg.

[53] Per un primo generale approccio, cfr. All’ombra delle fanciulle in fiore. La musica in Francia nell’età di Proust, a cura di C. de Incontrera, Trieste, Stella, 1987; sul salotto Polignac, cfr. M. de Cossart The Food of Love: Princesse Edmond de Polignac and Her Salon, London, Hamish Hamilton, 1978; su Diaghilev, cfr. K. Kopelson, The Queer Afterlife of Vaslav Nijinsky, Stanford, Stanford University Press, 1997. Sulla danza e l’omosessualità la bibliografia è ormai ragguardevole; per una prospettiva teorica, cfr. J. L. Hanna, Patterns of Dominance: Men, Women, and Homosexuality in Dance, «The Drama Review», XXXI, n. 2, 1987, pp. 22-47, e B. Ramsay, The Male Dancer: Bodies, Spectacle, Sexualities, New York - London, Routledge, 1995.

[54] Portavoce di queste teorie, che godono di più convinto apprezzamento fra le studiose (come ben sottolinea l’introduzione a Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile cit.), è soprattutto la già citata Butler, Gender Trouble cit., ed Ead., Bodies That Matter cit. Osservazioni sul dualismo in musica si trovano poi in L. Treitler, Gender and Other Dualities of Music History, in Musicology and Difference cit., pp. 23-45, e S. G. Cusick, Gendering Modern Music: Thoughts on the Monteverdi-Artusi Controversy, «Journal of the American Musicological Society», XLVI, 1993, pp. 1-25.

[55] Cfr. N. Treadwell, Female Operatic Cross-Dressing: Bernardo Saddumene’s Libretto for Leonardo Vinci’s “Li zite ’n galera” (1722), «Cambridge Opera Journal», X, 1998, pp. 131-156.

[56] Ci si perdoni l’elenco un po’ arido e del tutto incompleto; ma nel segnalare la vastità del fenomeno, speriamo di poter offrire un primo punto di partenza a chi abbia voglia di fare ricerche più approfondite:

(a) Orazio Persiani, Le nozze di Teti e Peleo, 1639; Aurelio Aureli, Erismena, 1655; Giovanni Andrea Moniglia, Semirami, 1667; Camillo Badoer, Sesto Tarquinio, 1679; Giulio Cesare Corradi, La Gierusalemme liberata, 1687 – Aureli, Eliogabalo, 1668; Matteo Noris, Galieno, 1676;

(b) Vincenzo Nolfi, Bellerofonte, 1642 (con un fraintendimento lesbico); Giovanni Faustini, La Calisto, 1651; Francesco Maria Piccioli, Messalina, 1679; Sigismondo Capece, Tetide in Sciro, 1712 – Faustini, La virtù de’ strali d’Amore, 1642; Aureli, Massimo Puppieno, 1684;

(c) Scipione Errico, Deidamia, 1644; Faustini, L’Euripo, 1649; Faustini, Doriclea, 1650; Giacinto Andrea Cicognini, Orontea, 1656; Piccioli, Messalina, 1679; Capece, Tetide in Sciro, 1712 – Faustini, L’Euripo, 1649; Noris, Domiziano, 1673; Corradi, L’inganno regnante, 1688;

(d) Gian Francesco Busenello, L’incoronazione di Poppea, 1643; Gio. Filippo Apolloni, La Dori, 1663; Giacomo Francesco Bussani, Massenzio, 1673; Bussani, Giulio Cesare in Egitto, 1677; Aureli, Massimo Puppieno, 1684 – Capece, Tetide in Sciro, 1712;

(e) Faustini, L’Eupatra, 1655; Nicolò Minato, L’Antioco, 1658; Minato, Elena, 1659; Apolloni, La Dori, 1657 – Faustini, L’Eritrea, 1652; Minato, Artemisia, 1656; Aureli, La costanza di Rosmonda, 1659; Beregani, Annibale in Capua, 1661.

[57] Ben investigato in questo senso, anche da una prospettiva filologica, il cross-dressing politicamente eversivo dell’Iphide greca di Nicolò Minato: cfr. E. Sala, Le metamorfosi di “Ifide greca”, in «Quel novo Cario, quel divin Orfeo». Antonio Draghi da Rimini a Vienna, atti del convegno internazionale, Rimini, 5-7 ottobre 1998, a cura di E. Sala e D. Daolmi, Lucca, LIM, 2000, pp. 61-98.

[58] Nonché evidentemente il caso di Semiramide, che oggi conosciamo soprattutto nella versione rossiniana, ormai depurata dei vari travestimenti. Per i cross-dressing di Semiramide, cfr. Heller, The Queen As King cit., e la bibliografia ivi proposta a p. 98 nota 11.

[59] M. Garber, Interessi truccati. Giochi di travestimento e angoscia culturale (1992), Milano, Cortina, 1994, p. 19

[60] Cfr. A. Manfredini, Qui commutant cum feminis vestem, «Revue internationale des Droits de l’Antiquité», s. III, XXII, 1985, pp. 257-271.

[61] Gli studi su questi aspetti, soprattutto dal punto di vista giuridico, sono numerosi, ma resta da compilare un elenco ragionato. Anche Garber, Interessi truccati cit., limita l’inquadramento storico a poche pagine (cap. I) e non propone una bibliografia adeguata.

[62] Sull’opera, il mito e i risvolti omosessuali, cfr. G. Dall’Orto, Orsa cerca Orsa…, «Babilonia», n. 137, ottobre 1995, pp. 68-70.

[63] Qui, fra numerosi episodi equivoci, c’è quello di Sulpizia che, innamorata di Flavio, si arruola nel suo esercito come Delio. Flavio è attratto da Delio che, feritosi, viene personalmente curato dal comandante. Ormai convinta di aver suscitato l’amore di Flavio, Sulpizia si rivela. Al grido di «Femina Delio? Che miro!» Flavio fugge (e Sulpizia, in un momento di comicità surreale, decide di reindossare l’armatura per tornare nelle grazie di Flavio).

[64] Deidamia, che teme gli uomini, s’innamora di Filarte, che in realtà è Antiope; al disvelamento, Deidamia comprenderà la ragione del suo trasporto: Filarte non è un uomo, e lei potrà lanciare le braccia al collo della compagna.

[65] Fenomeno simile è quello della pazzia (come afferma Foucault, l’omosessualità è una forma di pazzia). Dell’ilarità suscitata dalle scene di follia capaci di «far precipitare temporaneamente una parte nobile a livello comico» accenna Fabbri, Il secolo cantante cit., p. 99 sgg.

[66] J. Rosselli, Il cantante d’opera. Storia di una professione (1600-1990), Bologna, Il Mulino, 1993, p. 69; il cap. II (pp. 45-78), dedicato ai castrati, riprende e compendia un saggio precedente: The Castrati As a Professional Group and a Social Phenomenon, 1550-1850, «Acta Musicologica», LX, 1988, pp. 143-179.

[67] Almeno dopo A. Heriot, I castrati nel teatro d’opera (1956), Milano, Rizzoli, 1962, non c’è studio sui castrati, scientifico o aneddotico, che non abbia fatto un cenno alla loro ipotetica omosessualità (quasi una storia aneddotica della sodomia è il caso limite di A. G. Bragaglia, Degli “evirati cantori”, Firenze, Sansoni, 1959).

[68] Rosselli, Il cantante d’opera cit., mette in relazione tale accusa con l’«ambiguità con cui i gruppi dominanti della società europea hanno volta a volta guardato ai gruppi creduti inferiori ma che apparivano in qualche modo potenti o affascinanti – gli ebrei, per esempio, o le donne» (p. 67). Anche H. Mayer, I diversi (1975), Milano, Garzanti, 1977, prende in considerazione tre rappresentazioni archetipiche della diversità: le donne, gli omosessuali, gli ebrei.

[69] Dei libelli contro i castrati italiani pubblicati a Parigi durante la Fronda del 1648 dà notizia Isherwood, La musica cit., p. 145 sgg. In Italia l’arma dell’omosessualità, seppur non frequentissima, veniva usata dai detrattori di un teatro d’opera giudicato lascivo: tali erano i toni violenti di Salvator Rosa o quelli più divertiti (eppur sintomo di pregiudizio) di B. Marcello, Il teatro alla moda (1720), a cura di A. d’Angeli, Milano, Ricordi, 1956, soprattutto p. 30 sg. – L’effeminatezza qui presa di mira, non propriamente sinonimo di omosessualità, è coerentemente riconducibile all’analisi di Gilman (vedi di seguito). Anche nella Spagna del secolo successivo l’omosessualità (in questo caso di un impresario) diventa pretesto per fomentare l’ostilità verso l’opera italiana (cfr. C. Rodríguez Suso, La trastienda de la Ilustración. El empresario Nicola Setaro y la ópera italiana en España, questa rivista, V, 1998, pp. 215-268).

[70] Cfr. T. S. Gilman, The Italian (Castrato) in London, in The Work of Opera cit., pp. 49-70.

[71] Gilman elenca vari casi, ben documentati nelle cronache, in cui aristocratiche in vista persero la testa per i castrati italiani. Paradossalmente era proprio questo uno degli elementi da cui muoveva l’accusa di omosessualità. Il castrato infatti poteva rivelarsi più appetibile del maschio britannico solo perché era animale lascivo e perverso, e pertanto capace di ribaltare i gusti sessuali del suo pubblico, sia maschile (come denunciano gli scritti coevi di John Dennis) sia femminile (l’insorgere del desiderio sessuale e la ricerca di appagamento sono giudicati tanto “maschili” da suggerire la surreale satira anonima del 1723 in cui una tal Prudentia, ascoltando il castrato Senesino, scopre d’improvviso fra le sue virginee gambe che «the monster bolder grows», l’erezione sformandole l’ormai inadeguata veste). Il binomio ‘italiano/sodomita’ era poi diffusissimo nell’Inghilterra dell’epoca – «Lust chose the torrid zone of Italy | Where blood ferments in rapes and sodomy» (il vizio predilige le torride regioni d’Italia dove il sangue eccita alla violenza e alla sodomia), scriveva Daniel Defoe nel 1700 –, anche in relazione alla licenziosità sessuale che si attribuiva più o meno a ragione alle gerarchie ecclesiastiche di Roma (non stupisce che gli anglicani accusassero i cattolici di sodomia; cfr. sopra, nota 7). In ultimo la finzione del teatro concede cittadinanza all’omosessualità, allora come oggi, non solo sulla scena ma anche fra gli attori. Sull’Inghilterra settecentesca, cfr. K. Straub, Sexual Suspects: Eighteenth-Century Players and Sexual Ideology, Princeton, Princeton University Press, 1992. Ancora sull’identità sessuale e nazionale dell’opera italiana a Londra in questi anni, cfr. ThMcGeary, Warbling Eunuchs: Opera, Gender and Sexuality on the London Stage, 1705-1742, «Restoration and 18th-Century Theatre Research», VII, 1992, pp. 1-22; Id., Gendering Opera: Italian Opera As the Feminine Other in Britain, 1700-42, «Journal of Musicological Research», XIV, 1994, pp. 17-34; Id., Farinelli in Madrid: Opera, Politics, and the War of Jenkins’ Ear, «Musical Quarterly», LXXXII, 1998, pp. 383-421, e S. Aspden, «An Infinity of Factions»: Opera in Eighteenth-Century Britain and the Undoing of Society, «Cambridge Opera Journal», IX, 1997, pp. 1-19.

[72] La convincente contrapposizione proposta da Gilman trova conferme e approfondimenti negli studi di J. G. A. Pocock, The Machiavellian Moment: Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton, Princeton University Press, 1975, e L. Dowling, Hellenism and Homosexuality in Victorian Oxford, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1994. Un’indagine sul libretto d’opera sei-settecentesco non farebbe che confermare questo dualismo. Ad apertura del Giasone di Cicognini e Cavalli (1649), probabilmente l’opera più nota di tutto il Seicento, Ercole è preoccupato per il «troppo molle effeminato ingegno» di Giasone, che invece di prepararsi alla guerra pensa a spassarsela con un’incognita amante. È solo il caso di osservare come la sensibilità moderna abbia in alcuni casi confuso effeminatezza con innamoramento. Prima che innamorato, l’eroe “effeminato” è colui che disattende il bene della collettività (va da sé che la causa è l’amore, ma solo se inteso in modo egoistico: non è effeminato amare qualcuno, è effeminato innamorarsi). I vari studi gender che contrappongono con tanta disinvoltura ‘maschile’ e ‘femminile’ nella cultura seicentesca dimenticano talvolta che il senso di queste parole è mutato nei secoli.

[73] Il motivo per cui il Traité (1707) ebbe più fortuna di altri scritti simili è forse riconducibile alla seconda edizione (1758, con il titolo Italian Love) della traduzione inglese (Eunuchism Displayed, 1718), pubblicata con l’aggiunta di una trentina di pagine di notizie sui castrati apparsi sulle scene londinesi.

[74] D. Fernandez, Il ratto di Ganimede (1989), Milano, Bompiani, 1991, p. 32.

[75] Un caso emblematico: Goethe, notoriamente sensibile al fascino maschile, è in imbarazzo a dover ammettere che anche per lui la seduzione dei castrati è irresistibile (cit. in Heriot, I castrati nel teatro d’opera cit., p. 41). Per altro verso non si può fare a meno di giudicare equivoco l’interesse insistito di Giacomo Casanova per i castrati (l’amore giovanile per Bellino non significherà altro?); gli stessi dodici libri di avventure sentimentali sembrano quasi un monumento alla costruzione della sua eterosessualità. L’episodio del castrato Giovannino, protetto dal cardinal Borghese, si scopre pretestuoso perché il cardinale era morto da almeno tre anni. Casanova vuol inserirlo ugualmente per ribadire quanto i castrati lo seducano solo sulla scena, non quotidianamente: «perché si vedeva subito che era un uomo mutilato». Se non fosse stato mutilato, avrebbe potuto suscitare interesse? Con una battuta simile Wilde fu incarcerato per sodomia: «L’avete baciato?» – «Mio Dio, no! Era troppo brutto!». Sul punto di licenziare queste bozze è apparso un interessante contributo sul ruolo sociale del castrato nell’ancien régime: cfr. S. Leopold, “Not Sex but Pitch”: Kastraten als Liebhaber – einmal “über” der Gürtellinie betrachtet, in Provokation und Tradition. Ehrfahrungen mit der alten Musik, a cura di H.-M. Linde e R. Rapp, Stuttgart-Weimar, Metzler, 2000, pp. 219-240.

[76] Il fenomeno risulta evidente nella trasformazione dei principii educativi dei collegi nobiliari (maschili). Il ballo, che tanto ruolo aveva nella formazione del rampollo settecentesco, poco a poco viene allontanato come effeminato e disdicevole; le stesse rappresentazioni scolastiche prima eliminano i ruoli femminili (necessariamente en travesti e perciò già causa di vizio per il padre D. Concina, De’ teatri moderni, Roma, Barbiellini, 1755, l. I, cap. iii e iv, pp. 25-43, e ix, p. 91 sgg.), poi tutti i costumi di scena e, nei primi anni dell’Ottocento, l’intero spettacolo (cfr. in merito D. Daolmi, I balli negli allestimenti settecenteschi del Collegio Imperiale Longone, in Creature di Prometeo, a cura di G. Morelli, Firenze, L. S. Olschki, 1996, pp. 3-86: 23-28).

[77] W. Bashant, Singing in Greek Drag: Gluck, Berlioz, George Eliot, in En Travesti cit., pp. 216-241, sulla scia degli spunti di E. Wood, Sapphonics, in Queering the Pitch cit., pp. 27-66: 29, a sua volta rimasticati in F. Miller, Farinelli’s Electronic Hermaphrodite and the Contralto Tradition, in The Work of Opera cit., pp. 73-92: 88-90, non si perita di giudicare il lavoro di Gluck «one of the queerest operas» (pp. 216 e 222), almeno – bontà sua – fra le opere a lei note. L’impressione è che non siano molte altre però le opere che l’autrice ­conosce, se per lei – indecisa fra l’accogliere o il rifiutare l’immaginario omosessuale mitologico – le “peculiarità” queer scaturiscono sostanzialmente dalla sessualità indifferenziata del registro vocale di Orfeo, pensato per il castrato Guadagni e modernamente interpretato en travesti; soluzione del tutto scontata in quasi tutto il repertorio barocco. Più interessante è la seconda parte dell’articolo, che, attraverso gli occhi della scrittrice George Eliot, accenna alle difficoltà che tale ambiguità sessuale aveva causato al recupero ottocentesco dell’opera di Gluck.

[78] Cfr. D. Keyser, Cross-Sexual Casting in Baroque Opera: Musical and Theoretical Conventions, «Opera Quarterly», V, n. 4, 1988, pp. 49-62; J. Dame, Unveiled Voices: Sexual Difference and the Castrato, in Queering the Pitch cit., pp. 139-153, e Miller, Farinelli’s Electronic Hermaphrodite cit..

[79] Così si esprime p. es. il barone di Montesquieu: «Nulla infatti (che io sappia) ispira più l’amore filosofico ai romani» (Ch.-L. de Montesquieu, Viaggio in Italia [1728], a cura di G. Macchia e M. Colesanti, Bari, Laterza, 1990, p. 164 sg., già noto in parte a G. Monaldi, Cantanti evirati celebri del teatro italiano, Roma, Ausonia, 1920, p. 33, e Bragaglia, Evirati cantori cit., p. 44). Più sfumata ma identica nei contenuti è l’osservazione in Chde Brosses, Viaggio in Italia. Lettere familiari (1739-40), a cura di G. Natoli, 3a ed., Bari, Laterza, 1992, p. 586. E ancora nella stessa direzione è il commento di Casanova riferito al castrato Giovanni Osti; cfr. G. Casanova, Storia della mia vita (1791-98), a cura di P. Chiara, Milano, Mondadori, 1964-65, IV, p. 336.

[80] Casanova, Storia della mia vita cit., IV, p. 337. La stessa idea era stata espressa anni prima da Calzabigi nella Lulliade (scritto del 1753-1789 che ripetutamente si occupa di omosessualità): cfr. G. Muresu, La ragione dei “buffoni”, Roma, Bulzoni, 1977, p. 308. È da dire che proprio negli anni parigini che videro la prima stesura della Lulliade Calzabigi era in stretto contatto con Casanova, e non è improbabile che tale opinione fosse stata oggetto di qualche loro conversazione.

[81] Già nel 1632 Jean-Jacques Bouchard, presente ad una rappresentazione romana, non poteva fare a meno di notare che «in sala non si sentivano che vaghi sospiri mossi da desiderio e ammirazione … e i cardinali S. Giorgio e Aldobrandini con le labbra protese invitavano ai baci con ripetuti e sonori schiocchi questi effeminati attori» (il Journal di Bouchard è cit. in Bragaglia, Evirati cantori cit., p. 30). Centocinquant’anni dopo l’atteggiamento non sembra mutato, se G. Gorani, Mémoirs secrets et critiques des cours, des gouvernemens et des mœurs des principaux États de l’Italie, Paris, Buisson, 1793, nel capitolo intitolato La surprise (II, pp. 305-319) si dilunga su «le péché noble, le péché gentil» tanto diffuso fra gli alti ecclesiastici romani e tanto esibito a teatro nella protezione da essi concessa a castrati dalla dubbia moralità.

[82] D. Fernandez, Porporino, o I misteri di Napoli (1974), trad. di A. Rosso Cattabiani, Milano, Rusconi, 1976, p. 122 sg.

[83] Rosselli, Il cantante d’opera cit., p. 67. Il passo (cit. per esteso in Rosselli,Castrati As a Professional Group cit., p. 174 nota 116) è tratto dall’Historia musica di G. A. Angelini Bontempi, del 1695.

[84] Sulla figura di Achille e sull’uso del travestimento, cfr. W. Heller, Reforming Achilles: Gender, Opera Seria and the Rhetoric of the Enlightened Hero, «Early Music», XXVI, 1998, pp. 562-581.

[85] Siamo grati a Marco Emanuele per averci messo a disposizione le notizie sulla recezione censurata dell’Achille in Sciro. La versione in genovese è ora in Achille in Sciro. Parodia in tre atti, a cura di A. F. Ivaldi, Genova, Le Mani, 1998.

[86] Sulle reazioni al Do di petto nell’Ottocento, cfr. M. Beghelli, Il “Do di petto”. Dissacrazione di un mito, questa rivista, III, 1996, pp. 105-149.

[87] Su un diverso tipo di persistenza delle ambiguità dell’opera settecentesca nell’Ottocento, cfr. R. Cowgill, Re-gendering the Libertine; Or, The Taming of the Rake: Lucy Vestris As Don Giovanni on the Early Nineteenth-Century London Stage, «Cambridge Opera Journal», X, 1998, pp. 45-66.

[88] Così il tenore Antonio de Val in una lettera del 24 agosto 1843 a Guglielmo Brenna, segretario del Teatro La Fenice, citata in M. Conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Milano, Il Saggiatore, 1983, p. 70.

[89] M. Reynolds, Ruggiero’s Deceptions, Cherubino’s Distractions, in En Travesti cit., pp. 132-151, offre spunti interessanti, seppur funestati da troppe imprecisioni.

[90] Robert de Montesquiou, il modello primario per il personaggio proustiano di Charlus nonché noto omosessuale parigino, pubblicò sul periodico «Le Théâtre» (n. 211, giugno 1911) una lunga recensione al Martyre intitolata L’archange d’or, ou L’archer percé de ses flèches: vi emergono in nuce i temi che faranno di san Sebastiano una delle più importanti icone gay del ’900, da Yukio Mishima a Derek Jarman: in primo luogo proprio l’immagine del corpo quasi completamente nudo penetrato dalle frecce (voluto, ovviamente, il doppio senso). Le numerose immagini che accompagnano lo scritto di Montesquiou sono a questo proposito piuttosto eloquenti (un ringraziamento a Stefania Filippi per averci procurato una copia della recensione). Ma non è improbabile che d’Annunzio avesse tratto spunto dalle osservazioni di G. Éekhoud, Saint Sébastien dans la peinture, «Akademos», I, 1909, pp. 171-175. Sulla evoluzione di san Sebastiano quale icona gay, cfr. l’assai documentato K. Ressouni-Demigneux, La chair et la flèche. Le regard homosexuel sur saint Sébastien tel qu’il etait representé en Italie autour de 1500, Mémoire de Maîtrise, Université Paris I (Panthéon-Sorbonne), 1996 (attualmente reperibile in rete all’indirizzo http://panoramix.univ-paris1.fr/UFR10/K/maitkarim.html).

[91] Per l’uso (e insieme il rifiuto) della tematica omosessuale in Dalibor, cfr. D. Daolmi, Dalibor, eroe in terra di Boemia, in Dalibor, programma di sala, Teatro Lirico di Cagliari, 1998, pp. 12-37.

[92] E. K. Sedgwick, Between Men: English Literature and Male Homosocial Desire, New York, Columbia University Press, 1985, p. 105 sg.

[93] Si pensi a Jules et Jim di Henri-Pierre Roché, più noto nella versione cinematografica di Truffaut (1961).

[94] Cfr. Castle, The Apparitional Lesbian cit., pp. 66-91: Sylvia Townsend Warner and the Counterplot of Lesbian Fiction.

[95] Ancora una volta dobbiamo ringraziare Marco Emanuele per avere condiviso con noi le sue ricerche inedite sulle amicizie operistiche.

[96] R. Parker, On Reaching the Beguiled Shore, nel suo Leonora’s Last Act: Essays in Verdian Discourse, Princeton, Princeton University Press, 1997, pp. 3-19: 19.

[97] Cfr. P. J. Smith, «O patria mia»: Female Homosociality and the Gendered Nation in Bellini’s “Norma” and Verdi’s “Aida”, in The Work of Opera cit., pp. 93-114.

[98] Cfr. J.-J. Nattiez, Wagner androgino. Saggio sull’interpretazione (1990), Torino, Einaudi, 1997.

[99] Cfr. M. Morris, Tristan’s Wounds: Homosexual Wagnerians in the Fin-de-Siècle, in Secret Passages: Music, Modernism, and Sexuality, a cura di Ll. Whitesell e S. Fuller, in corso di pubblicazione.

[100] Cfr. L. Hutcheon - M. Hutcheon, Opera: Desire, Disease, Death, Lincoln, University of Nebraska Press, 1996, pp. 130-133. Lo stesso Mann distingue fra la sifilide “eterosessuale” di Leverkühn nel Doktor Faustus e il colera “omosessuale” di Aschenbach in Tod in Venedig.

[101] Esattamente quello che càpita (o capitava fino a pochi anni fa) sugli schermi cinematografici: cfr. Russo, Lo schermo velato cit., pp. 327-329. Per un discorso sull’omosessualità e la malattia (nello specifico in relazione all’AIDS, ma non solo), cfr. S. Sontag, L’AIDS e le sue metafore (1989), Torino, Einaudi, 1989.

[102] La bibliografia è sostanziosa: cfr. almeno ClHindley, Contemplation and Reality: A Study in Britten’s “Death in Venice”, «Music & Letters», LXXI, 1990, pp. 511-523, e Id., Platonic Elements in Britten’s “Death in Venice”, ivi, LXXIII, 1992, pp. 407-429; Hutcheon-Hutcheon, Opera: Desire, Disease, Death cit., pp. 133-149, e D. Fischlin, «Eros Is in the Word»: Music, Homoerotic Desire, and the Psychopathology of Fascism, Or The «Strangely Fruitful Intercourse» of Thomas Mann and Benjamin Britten, in The Work of Opera cit., pp. 209-233; per una recente sintesi in italiano, cfr. B. Diana, Il sapore della conoscenza. Benjamin Britten e “Death in Venice”, Torino, De Sono - Paravia, 1997.

[103] Cfr. M. Morris, Admiring the Countess Geschwitz, in En Travesti cit., pp. 348-370. Per una diversa interpretazione, che rimprovera a Berg di non aver offerto un queer role model positivo, cfr. S. Abel, Opera in the Flesh: Sexuality in Operatic Performance, Boulder, Westview Press, 1996, p. 73 sg.

[104] La bibliografia è molto ampia, ma sono fondamentali PhBrett, Britten’s Dream, in Musicology and Difference cit., pp. 259-280, e Id., Eros and Orientalism in Britten’s Operas, in Queering the Pitch cit., pp. 235-256; su Peter Grimes, cfr. Id., Benjamin Britten: “Peter Grimes”, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; su Albert Herring, cfr. ClHindley, Not the Marrying Kind: Britten’s “Albert Herring”, «Cambridge Opera Journal», VI, 1994, pp. 159-174; su Billy Budd, cfr. PhBrett, Salvation at Sea: “Billy Budd”, in The Britten Companion, a cura di Chr. Palmer, London, Faber, 1984, pp. 133-143; sul Turn of the Screw, cfr. ClHindley, Why Does Miles Die? A Study of Britten’s “The Turn of the Screw”, «The Musical Quarterly», XLIV, 1990, pp. 1-17, e la risposta di PhBrett, Britten’s Bad Boys: Male Relations in “The Turn of the Screw”, «Repercussions», I, n. 2, 1992, pp. 5-25; su Owen Wingrave, cfr. StMcClatchie, Benjamin Britten,“Owen Wingrave” and the Politics of the Closet: Or, «He Shall Be Straightened Out at Paramore», «Cambridge Opera Journal», VIII, 1996, pp. 59-75.

[105] Cfr. Wood, Sapphonics cit., ed Ead., The Lesbian in the Opera: Desire Unmasked in Smyth’s “Fantasio” and “Fête Galante”, in En Travesti cit., pp. 285-305.

[106] Cfr. Fernandez, Il ratto di Ganimede cit., pp. 210-213, e R. Aldrich, The Seduction of the Mediterranean: Writing, Art, and Homosexual Fantasy, New York - London, Routledge, 1993, pp. 199-122.

[107] La questione si fa ancor più spinosa per il repertorio dei secoli precedenti: probabilmente il contributo del privato del compositore è minimo in un sistema che non concepisce l’opera d’arte come espressione della soggettività dell’autore. D’altra parte la commozione particolarmente intensa che la musica esprime nella scena della morte dell’amico in David et Jonathas di Marc-Antoine Charpentier (1688), o l’insistenza sul tema di un amore che non può esistere in Anacréon di Luigi Cherubini (1803), induce a credere che il privato a volte riesca a trasparire. Un discorso certamente più facile si potrebbe fare a proposito dei librettisti, ma in genere di questi è poco nota la vicenda biografica (che si sappia che Charles Jennens, l’autore del Messiah händeliano, fosse omosessuale, è poco meno che un caso fortuito).

[108] Sul rapporto tra il teatro bussottiano e l’eros, cfr. G. La Face, Teatro, eros e segno nell’opera di Sylvano Bussotti, «Rivista italiana di Musicologia», IX, 1974, pp. 250-268.

[109] Cfr. P. J. Smith, «Gli enigmi sono tre»: The (D)evolution of Turandot, Lesbian Monster, in En Travesti cit., pp. 242-284.

[110] Testimonianza dello spettacolo e di quegli anni è il volume La traviata norma. Ovvero: vaffanculo… ebbene sì!, a cura del Collettivo “Nostra Signora dei Fiori”, Milano, L’Erba Voglio, 1977.

[111] «Ed è tutta una generazione ventenne che ha preso questa stessa strada ignota ai padri e agli zii» (A. Arbasino, L’anonimo lombardo, 2a ed., Torino, Einaudi, 1973, p. 100).

[112] Ivi, p. 105 sg.

[113] Cfr. D. Daolmi, E Dio creò le melochecche, «Babilonia», n. 140, 1996, pp. 12-15.

[114] Cfr. Kopelson, Metropolitan Opera cit., e M. Morris, Reading As an Opera Queen, in Musicology and Difference cit., pp. 184-200.

[115] Per esempio il numero quasi monografico di «Christopher Street», 69, October 1982.

[116] Ora in T. McNally, Three Plays, New York, Plume, 1990, da cui lo spunto per altre pubblicazioni, come il romanzo di Ethan Mordden, The Venice Adriana (1998), già nel titolo evidente derivazione da McNally; cfr. il riferimento in Morris, Reading As an Opera Queen cit., p. 189 sgg. La traviata di Lisbona fu data anche a Roma nell’ottobre 1995 con la regìa di Marco Mattolini nell’ambito della rassegna teatrale gay “Il garofano verde”.

[117] Che alcune zone dell’edificio teatrale (in genere loggione o galleria) fossero luogo privilegiato dove consumare incontri occasionali pare testimoniato fin dal Settecento (cfr. N. Mangini, “voce” Casanova Giacomo, in Dizionario biografico degli Italiani, XXI, 1978, pp. 154-166: 162) ed è stato vero in molti teatri italiani fino a pochi anni fa.

[118] «Finché l’edificio in cui si rappresenta l’opera fornisce un luogo – un closet, potremmo dire – in cui lo spirito può librarsi, sembra che le ingiustizie di tutti i giorni abbiano assai meno importanza. Questa separazione tra lo spazio fisico del teatro e il “mondo esterno” riesce a neutralizzare il possibile disagio suscitato delle interpretazioni trasversali che vogliono queer l’opera» (Morris, Reading As an Opera Queen cit., p. 186). La cultura angloamericana identifica nel closet (la cabina armadio, il luogo del privato) quello stato psicofisico e mentale in cui l’omosessuale è consapevole del proprio desiderio ma non lo vive (se non in situazioni provvisorie) e soprattutto non ha ancora dichiarato la propria omosessualità (se non a pochi amici gay). Da qui la formula comunissima to come out of the closet, venir fuori dall’armadio, ovvero dichiarare la propria omosessualità.

[119] Cfr. Kopelson, Metropolitan Opera cit.

[120] «Temevo che la mia storia d’amore con il-ragazzo-della-porta-accanto potesse finire in qualunque momento e che mi sarei trasformato in Donna Elvira che piange per la strada. Solo chi è stato abbandonato ha il diritto di parlare dei propri amori illegittimi ... Sono entrato nella coscienza vocale di una donna che può cantare col corpo la propria vita erotica proprio perché è stata abbandonata» (Koestenbaum, The Queen’s Throat cit., p. 206).

[121] «Il dolore di Didone – il suo rinunciare alla vita, il suo manifestare la voglia di morire di fronte a un’ammutolita Belinda – è queer perché è ugualmente irremovibile e fragile ... e crediamo in Belinda, là ferma, fedele fin dall’inizio, che non ha altro di meglio da fare a Cartagine che tenere la mano della regina...» (ivi, p. 234). Per un’appropriazione in chiave lesbica del Dido and Aeneas di Purcell, cfr. J. A. Peraino, I Am an Opera: Identifying with Henry Purcell’s “Dido and Aeneas”, in En Travesti cit., pp. 99-131.

[122] Cfr. Morris, Reading As an Opera Queen cit.

[123] Cfr. Robinson, The Opera Queen cit.

[124] «“Canto il corpo elettrico” come dice Walt Whitman, la più grande opera queen americana del secolo XIX. Questa elettricità, sono persuaso, è sublimazione o spostamento in alto (come amano dire i freudiani) delle vibrazioni del corpo e dei fremiti dell’atto sessuale» (ivi, p. 288). Koestenbaum, The Queen’s Throat cit., p. 156, ritiene di dover precisare: «La gola per i gay è preoccupazione e gioia: è luogo della fellatio. Non che tutti la pratichino: l’omosessualità non è legata al sesso orale, che appartiene anche gli eterosessuali. Ma la sessualità, come sistema simbolico di pesi e contrappesi, misure e contromisure, ha scelto la gola come luogo in cui gli omosessuali trovano sé stessi [come into their own]»; la frase è poi ripresa in Robinson, The Opera Queen cit., p. 288, qui mediata da Freud e Fliess.

[125] Cfr. B. Fink, The Lacanian Subject: Between Language and Jouissance, Princeton, Princeton University Press, 1997.

[126] È significativo che la lunga trascrizione delle opinioni di melomani in fila al botteghino del Palais Garnier nel saggio Le cri de l’ange non affronti mai di petto tematiche omosessuali, che tuttavia affiorano numerose, a mo’ di un sottotesto; l’unico caso esplicito è Claude, uno degli intervistati, che riconosce una predilezione gay, almeno come luogo comune, nella frequentazione del teatro d’opera (cfr. M. Poizat, L’opéra, ou Le cri de l’ange. Essai sur la jouissance de l’amateur d’opéra, Paris, Métailié, 1986, p. 20, e Id., La voix du diable. La jouissance lyrique sacrée, Paris, Métailié, 1990).

[127] Che lo spettacolo operistico sia soprattutto vocale è una rivendicazione ribadita da Koestenbaum in un recente articolo, quasi un’appendice a Queen’s Throat, dove lamenta la direzione “visiva” che ha preso l’opera: «Credo che abbiamo bisogno, più che di opere “gay” o “lesbiche”, di opere su come la sessualità odierna sia stata relegata nel regno della retina, del visibile, dell’evidente. La sessualità operistica è propria dell’orecchio. Che cosa accadrebbe se provassimo a rappresentare uditivamente le sessualità del visibile? Non è forse la sessualità visibile l’unica che la cultura può consumare e produrre?» (W. Koestenbaum, A Fan’s Apostasy, «University of Toronto Quarterly», LXVII, 1998, pp. 828-840: 839).

[128] Sulla scorta di M. F. Castarède, La voix et ses sortilèges, Paris, Les Belles Lettres, 1987.

[129] Sulla presenza omosessuale nel mondo della musica, non solo operistica, e soprattutto statunitense, sono stati pubblicati due libri, J. Gill, Queer Noises: Male and Female Homosexuality in Twentieth-Century Music, London, Cassell, 1995, e B. Hadleigh, Sing Out!: Gays and Lesbians in the Music World, 2a ed., London, Robson, 1998, ben lontani da qualunque pretesa di scientificità.

[130] Il periodico è parzialmente consultabile anche in rete, all’indirizzo www.parterre.com.

[131] Il tema ricorre. Marco Beghelli, nel suo Erotismo canoro (in questo stesso numero del «Saggiatore musicale»), giustamente osserva: «Il divo tenorile di fine millennio, in teatro come sulle copertine dei dischi, non perde occasione per esibire calcolatamente il suo maschio petto argentino, qualunque sia il personaggio interpretato»; in questo caso il riferimento non è a Daniels (più probabilmente a José Cura), ma il meccanismo non cambia.