«Et vive la musique qui nous tombe du ciel!». Lo spazio
sensibile sulla scena del xix
secolo 20200324 |
Michele Girardi (Università di Venezia) nb: > = collegamentp (pdf
o audio-video) |
mahler, ii sinfonia, v (1888-1894, Berlin 1895): inizio [mahler_2_1] >
e Tuba mirum, [mahler_2_2]> La
musique tombe du ciel,
dunque. E questo ‘miracolo’ non succede solo a
Carmen, che sta danzando per Don José, oppure al popolo spagnolo che sente la
voce dal cielo nel finale dell’atto terzo del Don Carlos cantare per le
anime dei martiri condannati al rogo dal Sant’Uffizio. E la musique tombe du ciel non soltanto
nel teatro musicale dell’Ottocento, ma ovunque un’idea drammatica
o narrativa sostenga la musica. L’idea di uno spazio acusticamente
‘sensibile’ ben oltre il dominio ricettivo tradizionale del
pubblico non mette radici solamente sulla scena, e trova soluzioni clamorose,
ad esempio, nel Tuba Mirum della Grand Messe de Morts di Hector Berlioz
(1837), con i quattro gruppi di strumenti a fiato collocati nei punti
cardinali. |
berlioz, Grande Messe de Morts, Tuba Mirum
(>) È un Tuba Mirum anche quello di Mahler, che
ebbe certo presente anche la Messa da requiem di Verdi. Il compositore descrive così il passo che abbiamo
appena ascoltato in un programma del 1901: «Risuona
il “Grande appello” –
Facendo eco
alle trombe dell’apocalisse ;
in un silenzio spaventoso crediamo di ascoltare un usignolo lontano, come
un’ultima eco scintillante di vita sulla terra. S’innalza,
debolmente, un coro di santi e di esseri celesti «Risorgerai, si
risorgerai”» (>). mahler, ii Sinfonia, Tuba
Mirum (>) ; si veda anche l’inizio del
movimento (>) |
Gli
ottoni e timpani collocati da Mahler in un luogo lontanissimo che
interagiscono con flauto, ottavino e tamburo dell’orchestra in sala,
alludono a un mondo che trascende l’azione visibile, e deriva dalla
conquista di quello spazio ‘sensibile’, in particolare nel teatro
musicale, che trova soprattutto in Francia, fin dall’era napoleonica,
un terreno molto fertile. Spazio che viene identificato in primo luogo dalle
abitudini dell’ascoltatore: a cominciare dalla Dafne di Marco da Gagliano (1608)
l’orchestra venne collocata davanti al palcoscenico, e da quel momento
lo sviluppo drammatico di un’opera risultò il prodotto di una visibile
interazione fra strumenti e cantanti in palcoscenico. Per recepire un luogo
diverso è dunque necessaria un’ulteriore fonte sonora rispetto
all’orchestra in buca, nascosta o visibile, ma che simboleggi comunque
uno spazio diverso da quello del palcoscenico. Come nell’esempio del Trovatore che avanza Leiris, dove
Leonora stessa, sola in scena, identifica il coro interno come presagio di morte («Quel suon, quelle preci, solenni, funeste, | empiron quest’aere di cupo
terror!...»). Questa
condizione permette inoltre lo svolgimento sincronico di due eventi sempre in
relazione reciproca, in cui spesso quello fuori scena contribuisce a
rafforzare la presa drammatica dell’azione principale, come la Corrida
che si svolge dietro gli spalti del circo nell’atto quarto di Carmen, che irrompe più volte
nell’azione principale eccitando Don José e dandogli una motivazione
ulteriore per uccidere. Più spesso lo spazio identificato da una fonte sonora
diviene causa di ulteriori sviluppi altrimenti imprevedibili, causando le
reazioni degli interpreti, o anche comporta un’identificazione fra il
punto di vista del personaggio e del destinatario. Pubblico in sala e
cantanti in scena percepiscono infatti un evento esterno in tempo reale su
cui converge temporaneamente l’asse della narrazione, che può essere
visibile ai personaggi: prima che entri in palcoscenico, nell’atto
quarto di Nabucco, la platea non
vede il corteo che sfila in tempo di marcia funebre accompagnando Fenena al
supplizio, ma il protagonista, affacciandosi alla finestra, sì, e per questo
ritroverà la ragione precedentemente smarrita. Si produce un effetto analogo
anche se si fa musica in scena, ad esempio quando Alfredo intona il suo
brindisi nell’atto primo della Traviata
(«Libiamo nei lieti calici »), ma l’effetto ha una portata simbolica
ridotta. |
Vorrei
tracciare brevemente una panoramica sulla creazione di spazi sensibili
nell’opera dell’Ottocento, dove le esigenze dello spettacolo si
fanno a mano a mano sempre più impegnative e impongono un nuovo rapporto fra
musica e scena. Partirei da Parigi, e da un caso emblematico. Si tratta di
teatro francese, anche se l’autore è l’italianissimo Gioachino
Rossini e l’ipotesto è del tedesco Schiller. L’impianto spettacolare
di Guillaume Tell segue infatti le
consuetudini di Parigi, nel quale ha larga parte l’impiego di musica dans les coulisses proprio per
contestualizzare uno spazio ulteriore rispetto a quello visibile. Rossini e i
suoi librettisti potenziarono il modello, aggiungendo nuovo senso alla
drammaturgia. Nella trama la componente ‘politica’ riveste un
peso maggiore rispetto a quella amorosa, e anche la felicità nel mondo degli
affetti è subordinata al raggiungimento della libertà da parte di un popolo
oppresso. Tutta l’opera converge verso questo obiettivo, che viene
raggiunto clamorosamente nel finale e celebrato da uno dei cori più famosi ed
emozionanti di ogni tempo, in cui il sereno dopo la tempesta simboleggia
l’affrancamento dal tiranno. Ma uno spazio sensibile, destinato a manifestarsi
più volte nel corso dell’azione, si fa largo sin dal primo atto, dopo
che nella scena quarta il vecchio Melchtal ha benedetto le nozze di tre nuove
coppie. Rimasto solo, turbato, suo figlio Arnold riflette sul suo amore
funesto per la principessa Mathilde d’Asburgo, quando viene interrotto
da una fanfara di quattro corni «dans les coulisses»: Rossini, Guillaume Tell, I
corni di Gesler (>) Si tratta
di un segnale , che fa supporre uno spazio al di là del palcoscenico.
Potrebbe provenire da una partita di caccia, ma il tenore lo identifica senza
ambiguità: Mais quel bruit? des tyrans qu’a vomis l’Allemagne le cor sonne sur la montagne. Gesler est là; Mathilde l’accompagne; il faut encore la voir, entendre encore sa voix; soyons
heureux et coupable à la fois! Quello spazio sonoro ha una funzione drammatica precisa, dunque: ricorda al giovane svizzero che la sua terra è in ostaggio nelle mani di un tiranno, e che lui stesso ama una nemica, alla quale potrebbe sacrificare l’ideale di una patria e di un popolo liberi dal giogo (>). Non solo, ma questo scorcio si scontra frontalmente con un’altra musica per i quattro corni fuori scena, ben più complessa ed elaborata, che intona il Ranz des vaches, una melodia che «faisait fondre en larmes», come scrisse Rousseau nel suo Dictionnaire «déserter ou mourir ceux qui l’entandaient, tant qu’il excitait en eux l’ardent desir de revoir leur pays» (>). Anche questo spazio sensibile, ideale, viene identificato dal coro degli svizzeri (>): On entend des montagnes le signal du repos; la fête des campagnes abrège nos travaux. (>) |
L’esempio del
Guillaume Tell fu a sua volta contagioso: ben due capolavori di Wagner e
Verdi sfruttano lo spazio acustico esterno per ambientarvi battute di caccia che
esercitano un forte impatto sulla vicenda principale. Al principio
dell’atto ii di Tristan und Isolde, Wagner inscena una
fanfara di sei corni che gestisce con un virtuosismo impressionante, creando
un effetto di allontanamento mediante una dissolvenza sonora. L’ansia
di Brangania si contrappone alla smania di Isotta: insieme ai corni si
allontana anche Re Marke, e potrà aver luogo l’appuntamento con
Tristano a cui anela la protagonista con tutte le sue forze. Ne nascerà non
solo il clou dell’intera opera,
ma l’idillio più famoso del teatro musicale ottocentesco.. Wagner, Tristan et Isolde, La caccia si allontana (>) |
Le
sonorità di una caccia che si sentono all’inizio di Don Carlos,
anch’essa mimata acusticamente da sei corni, segnalano invece il
ritorno di Elisabeth de Valois nel palazzo di Fontainebleu. La principessa,
persa nella foresta, incontra il promesso sposo Don Carlos e celebra per
qualche istante il suo sogno d’amore con lui, per poi ritrarsi nel
dolore sempiterno quando viene proclamata moglie di Filippo ii e regina. Anche in questo frangente
la funzione dello spazio acustico è decisiva per lo svolgimento del dramma,
visto che ne propone le indispensabili premesse, e sarebbe stata ancor più
forte se nella prova generale a Parigi non fosse stato eliminato il dialogo
fra Elisabeth e le femmes du chœur des bucherons, affamati
dall’inverno e stremati dalla guerra, che invocano la pace per
sopravvivere. Per la loro salvezza Elisabeth accetterà la mano di Philippe Verdi, Don Carlos, La caccia
tragica (>) |
Nei casi appena esaminati, il codice operistico
impone le sue regole con nettezza, per la natura emblematica dei suoni
impiegati, e in generale – dal tam-tam per l’elemento
soprannaturale, come nella scena delle apparizioni del Macbeth e nel
finale del Don Carlos, all’arpa per serenate e preghiere, al
corno come strumento da caccia ecc. Ma il suono degli strumenti esercita
sempre una funzione simbolica, che talvolta offre associazioni semantiche
inedite. La scena iniziale della Juive (1835), capolavoro di Fromental
Halévy, spalanca un orizzonte fosco sul fanatismo religioso grazie a un
espace sensibile che si trova dentro al palcoscenico, ma non visibile, e alle
qualità timbriche dello strumento che lo simboleggia. Si tratta di un interno
affacciato su un esterno nella grande piazza di Costanza dove si celebra lo
storico concilio (1414-1418) che annienterà Jan Hus. Halévy, La juive, il
suono e lo spazio ‘ebraico’
(>) Dopo che un araldo ha
proclamato, lanciando un segno intertestuale verso il miracolo delle Nozze di
Cana, che «a midi sur les grandes places | jailliront
des fontaines de vin!»,
l’esaltato prevosto Ruggero si accorge che qualcuno sta lavorando nei
paraggi. Il rumore proviene dalla casa dell’ebreo Eléazar, dove si
tempra l’oro anche nei giorni delle feste comandate. halévy, La juive,
le incudini (>) Il suono viene da incudini
percosse dietro la facciata della bottega, che sinora erano state utilizzate
come strumenti musicali da Auber nell’opéra-comique Le Maçon (1825). Col loro timbro
Halévy volle simboleggiare il lavoro della comunità israelitica, e la
consapevole ribellione di Eléazar alla religione cristiana. L’incudine
sarebbe poi stata sfruttata da Verdi per sonorizzare il mondo dei gitani nel Trovatore, ma l’impiego più
importante, e al tempo stesso più imbarazzante per le implicazioni
‘ideologiche’, lo si deve a Wagner. Nell’entr’acte del Rheingold che accompagna la discesa
negli inferi di Wotan e Loge (scene 2-3) il compositore distribuì dietro le
quinte ben diciotto incudini di diverse taglie per rappresentare il lavoro
dei nani che popolano il Nibelheim. Wagner, Das Rheingold, altri ‘ebrei’ al
lavoro (>) L’effetto è grandioso, specie quando il tintinnio
rimane solo in scena e invade lo spazio acustico, ma il riferimento al topos creato da Halévy è inevitabile
(visto che anche nel regno di Alberich si lavora l’oro). Wagner crea in
tal modo un legame intertestuale preciso che attesta il suo antisemitismo
anche nell’arte: in virtù del sillogismo sonoro, dietro agli spregevoli
nibelunghi si celano gli israeliti. Vediamo questo breve scorcio in un
allestimento della Furia del Baus, per accorgerci che nonostante i mezzi
tecnici modernissimi, sono ancora le incudini a tener banco:: wagner, Das Rheingold, le incudini viste dalla Furia dels Baus (>) |
Nella
categoria degli strumenti impiegati in uno spazio sensibile al di là del
palcoscenico come emblemi musicali, normalmente le trombe danno veste sonora
a delle battaglie, oppure celebrano momenti solenni, soprattutto di trionfo.
Nel terzo atto di Otello, Verdi in
apparenza seguì questa prassi, che realizza un maggior grado di parentela con
la realtà, mentre sfruttò gli ottoni, invece, anche per mettere in scena un
movimento interiore dell’animo del protagonista, che soccombe ai fasti
di una cerimonia distrutto dalla gelosia. Nella scena quinta il Moro assiste,
nascosto, al colloquio tra Jago e Cassio. Mentre quest’ultimo mostra il
fazzoletto sottratto a Desdemona, improvvisamente s’ode l’inizio
di una fanfara, che le parole di Jago immediatamente denotano – « il
segnale che annuncia l’approdo | della trireme veneziana ». Cassio
parte e Jago rimane solo con Otello a decidere i dettagli
dell’uccisione di Desdemona e del suo presunto amante. Tutta la scena a
due è accompagnata da una fanfara affidata a dodici trombe, che connota,
grazie alla speciale posizione degli strumenti voluta da Verdi nella Disposizione scenica, tre altri luoghi
nello spazio oltre il palcoscenico che raffigura «La gran sala del Castello»:
un punto lontano (A) di dove si suppone arrivi la nave e da cui si udranno
anche le voci dei marinai (bassi) e il colpo di gran cassa che simula il
cannone (F), un punto da cui rispondono le trombe del castello (B) e un altro
punto (C) più vicino al coro (D) che accoglie l’arrivo dei compatrioti
dagli spalti. Dopo aver delineato queste tre dimensioni, i gruppi si
riuniscono per produrre un effetto di avvicinamento nello spazio («Le dodici
trombe riunite dovranno collocarsi molto innanzi a destra, possibilmente
presso il verone, onde risulti così spiccato un grande aumento di sonorità»,
recita la Disposizione scenica),
piazzandosi tutte dietro al verone (E) di dove la loro funzione proseguirà
dopo l’entrata in scena dei dignitari veneziani. Tutto questo movimento
si svolge dietro le quinte, e in scena entrano solamente quattro figuranti
che fingeranno di suonare la tromba nei momenti di dialogo fra il salone e
l’esterno del castello. Verdi, Otello: un
movimento dell’anima (>) L’importanza
drammaturgica di questa musica in scena è massima, e se ancora una volta le
istanze del momento pubblico tornano alla ribalta, le cause della tragedia
stanno tutte nell’animo di Otello. Il suono delle trombe interrompe lo
sviluppo di questa continuità ossessiva, segnalando l’approssimarsi di
un momento ufficiale: per riprendere la dignità che si addice alla sua carica
di governatore di Cipro il protagonista dovrà ricomporsi da un gravissimo
turbamento privato. La musica, in un quadro realistico di vera fanfara,
dovrebbe peraltro limitarsi ai suoni della serie armonica, restando
nell’ambito degli accordi perfetti nella tonalità di Do maggiore,
taglio indicato per le trombe, invece uno scivolamento al Si@ all’unisono introduce le parole di Otello
«Come la ucciderò?». Il moro si reca a incontrare gli ambasciatori, mentre la
fanfara s’unisce all’orchestra e al coro che entra in scena
insieme a Montano, Lodovico e agli altri patrizi. Ma il protagonista non è più
in grado di contenere le proprie reazioni, insulta Desdemona, e di fronte
all’orrore generale esclama «Tutti fuggite Otello!»: la frase, esito
estroverso di un violento moto dell’anima, è connotata dagli ottoni
dietro le quinte con un accordo di settima diminuita che risolve sulla tonica
in secondo rivolto. Questo passaggio descrive il travaglio del protagonista,
e anche in seguito la fanfara continuerà ad esercitare una duplice funzione,
denotando l’atmosfera di generale tripudio e al tempo stesso connotando
la tempesta interiore di Otello fino all’allegoria finale del trionfo
di Jago. Verdi seppe dunque indirizzare l’evoluzione implacabile della
tragedia verso la risoluzione finale sfruttando le potenzialità di un effetto
segnaletico che si proietta sulla scena, ma traducendolo nella
rappresentazione di un moto interiore dell’animo. |
Il problema dello spazio
scenico occupò anche la fantasia creativa di Wagner nella tarda maturità.
L’episodio dell’Agape sacra, che chiude l’atto primo di Parsifal (1882), supera ogni suo
sforzo precedente, poiché il musicista aspira a rappresentare un rito sospeso
nell’eternità. Mentre si muovono verso il Castello, Parsifal osserva
con stupore che «Cammino appena e sono già molto lontano» («Ich schreite kaum, | doch wähn’ ich mich schon weit.»), e Gurnemanz gli risponde «Figlio
mio, qui lo spazio è pari al tempo» («Du siehst, mein Sohn, | zum
Raum wird hier die Zeit.»). Wagner, Parsifal, uno
spazio sensibile ‘temporale’ (>) Nell’entr’acte la scena si trasforma a vista e Parsifal «sente
suoni meravigliosi. Suoni di tromba, tenuti a lungo e che aumentano di
intensità, a cui risponde un soave scampanio, come di campane di cristallo»,
scrive il compositore
nell’abbozzo in prosa del 1865. Sei tromboni e sei trombe in fortissimo da dietro la sala del
santuario annunciano il rito dell’ultima cena, mentre rintoccano le
campane. Entriamo con l’eroe nel tempio, dove l’azione
stessa si fa cerimonia, e per sua fisionomia abolisce il tempo. Nella
ritualizzazione il dramma e la musica tendono pertanto a farsi spazio,
come dice Gurnemanz, nella forma del tableau vivant,
mentre visione e sonorità vengono saturate. La cupola del Festspielhaus gioca un ruolo
importante, perché assorbe il suono che viene dal basso, e rimanda in un
amalgama di suggestione straordinaria le voci dei bambini piazzati a metà e
in alto del padiglione. Nel riverbero verso l’alto, le frequenze basse
si smorzano per prime, mentre nel registro acuto permane un residuo palpitante,
tecnica che vuol imitare il suono nello spazio di una cupola di ampie
dimensioni. Considerata come evento drammatico-musicale, la disposizione dei
cori invisibili nel Parsifal potenzia
un effetto di lontananza già sperimentato, soprattutto nel grand-opéra
francese e
nell’opera romantica tedesca, da Cherubini a Spontini, da Weber a
Meyerbeer, ma soprattutto è parte essenziale dell’illusione musicale,
fondendo esperienze spaziali e temporali in un intreccio di grande
suggestione. |
Dodici anni dopo Parsifal e sette dopo Otello,
Massenet produce la prima versione di
Thaïs, che perfezionerà nel 1898. L’opera
mette a fuoco il tema del peccato e della sensualità, caro alla fin de siècle, a confronto col fanatismo
religioso. Motore dell’azione, infatti, è un cenobita esaltato,
Athanaël, che sconvolge la vita della protagonista, affermata sacerdotessa di
Venere nella ‘mitica’ Alessandria d’Egitto in era
ellenista, ricca, còlta e decadente. Preoccupata per la caducità della sua
bellezza, l’ammaliatrice viene persuasa dal monaco che potrà trovare il
vero amore eterno solo tra le braccia di Dio e percorre con avidità, sino
alla morte precoce, una strada lastricata di cilicio e di stenti, lasciandosi
alle spalle specchi e alcove. Troppo tardi il prete si arrende alla passione
e rinnega con forza la sua fede, dopo aver finalmente compreso che non era la
missione di pastore d’anime a spingerlo verso Thaïs. Il tema, scabroso
e blasfemo è fra i prediletti del compositore francese, molto interessato
allo scontro fra Sacro e Profano, e gli sollecita un’inventiva drammaturgica ancor più fertile
del consueto, dove gli spazi sensibili dell’azione vengono
moltiplicati. Vorrei chiudere questo intervento occupandomi di uno spazio
singolare, perché Massenet, nel primo quadro dell’opera, rappresenta
una visione di Athanaël, a cui conferisce un ruolo strutturale nel racconto, facendola
riapparire nel quadro successivo, ma stavolta in scena. Siamo nella Thébaïde,
dove dimora la comunità dei cenobiti, e il protagonista, dopo aver attaccato
duramente la «prêtresse infâme – du culte de
Vénus», si assopisce. Ma il suo sonno è
agitato, come fosse colto da un incubo. Vede con orrore Thaïs
seminuda che danza in un teatro di Alessandra, suscitando il compiacimento
degli spettatori. Massenet, Thaïs, una
visione freudiana (>) La partitura costruisce uno
spazio sensibile grazie a un ensemble cameristico posto dietro le quinte (Grand
Flûte, Cor anglais, Clarinette, Harpe, Harmonium), che sprigiona una sonorità
lieve come una sorta di sipario sonoro, mentre in scena «dans
un brouillard apparaît l’intérieur du théâtre». Anche gli applausi scroscianti devono essere
percepiti come ovattati, concorrendo a determinare un un «effet
extrêmement lointaine» (>) massenet, Thaïs, La visione di Athanaël (>) Massenet evoca uno
spazio lontano acusticamente perché viene vissuto dal protagonista solamente
nel sonno, ma che deve essere visibile: la visione di Athanaël è in realtà
una profezia, visto che alla fine dell’atto primo, la protagonista
sfida il monaco, e «se dispose à reproduire la scène des
amours d’Aphrodite ». Il parallelismo è studiato per produrre un effetto di déjà vu, perché
la danza di Thaïs sta per avere luogo realmente, e gli strumenti che
formavano l’ensemble precedente ora sono in buca. |
Col sogno di Thaïs si avvia alla fine un’epoca,
l’Ottocento, nella quale i musicisti, coi librettisti e gli uomini di
spettacolo, hanno esplorato a largo raggio le possibilità offerte da luoghi
sonori che dischiudono nuovi spazi per la mente dell’ascoltatore. Ogni
effetto, dal più semplice al più complesso mira a conseguire un livello di
illusione sempre maggiore, rimanendo all’interno del codice operistico,
dove ogni mimesi non può fare altro che connotare un’azione o uno
spazio simbolico. Al di là vi può essere solo la rottura dell’impianto
narrativo che il codice stesso presuppone, e la moltiplicazione di spazi,
sonori e visivi. |
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